Con sentenza n. 18413/2022, depositata in data 10 maggio 2022, la Corte di Cassazione ha fornito taluni importanti chiarimenti, in primis, in ordine al rapporto sussistente tra la mancata adozione del Modello Organizzativo e di Gestione, ex D.Lgs. 231/2001, e il riconoscimento, in capo all’ente, della responsabilità amministrativa derivante da reato.
L’arresto in discorso si colloca all’esito di un procedimento avente ad oggetto l’accertamento della responsabilità di una società per l’illecito amministrativo di cui all’art. 25-septies D.Lgs. 231/2001, “per avere consentito il verificarsi del reato di lesioni personali, aggravato dalla violazione della normativa antinfortunistica”.
Il suindicato delitto, segnatamente, sarebbe stato posto in essere nell’interesse della società in ragione della mancata adozione di:
a) “un modello organizzativo avente ad oggetto le sicurezza sul lavoro”
e della mancanza di
b) “un organo di vigilanza che verificasse con sistematicità e organicità la rispondenza delle macchine operatrici, acquistata e messe in linea, alle normative comunitarie in tema di sicurezza, nonché l’adeguatezza dei sistemi di sicurezza installati sulle stesse”.
La Suprema Corte, tuttavia, ha censurato l’impostazione del capo di accusa, ossia la descrizione del fatto ascritto all’ente, rilevando come non fosse possibile comprendere il concreto profilo di responsabilità addebitato alla società.
Stando a quanto sostenuto dalla Pubblica Accusa, invero, la società sarebbe responsabile dell’illecito amministrativo derivante dal reato di lesioni personali, essenzialmente, per non aver adottato il Modello di cui al D.Lgs. 231/2001.
Ebbene, la Suprema Corte ha ritenuto di non accogliere una impostazione siffatta ritenendola contraria ai principi fondamentali che, notoriamente, governano il sistema della responsabilità amministrativa derivante da reato.
Se è vero, infatti, come è vero che, ai sensi del D.Lgs. 231/2001, l’efficace adozione di un Modello Organizzativo e di Gestione permette all’ente di andare esente da sanzione, è altrettanto innegabile che “la mancanza [di tale adozione, n.d.r.] non può implicare un automatico addebito di responsabilità”.
In altri termini, conclude la Suprema Corte, la mancata adozione del Sistema 231, a differenza da quanto evidentemente sostenuto dagli organi inquirenti, “non può assurgere ad elemento costitutivo della tipicità dell’illecito dell’ente”.
Altri sono, invece, i criteri di imputazione della responsabilità amministrativa in capo a soggetto collettivo.
I giudici di legittimità, in particolare, hanno ribadito la necessità che la commissione del reato presupposto sia funzionale all’interesse ovvero al vantaggio dell’ente medesimo.
Si tratta, come noto, di nozioni previste in via alternativa ed ontologicamente differenti: l’uno, l’interesse, consistente nella specifica finalizzazione teleologica del reato posto in essere, da valutarsi ex ante alla stregua di un giudizio soggettivo, l’altro, il vantaggio, rappresentato dagli effetti positivi conseguenti alla verificazione del fatto criminoso, valutabili ex post sul piano oggettivo.
Siffatti criteri di imputazione – da leggersi in uno con la appartenenza dell’autore del reato-presupposto alle categorie di cui agli artt. 6 e 7, D.Lgs. 231/2001 – hanno la funzione di
“irrobustire il rapporto di immedesimazione organizzativa, escludendo che possa essere attribuito alla persona morale un reato commesso sì da un soggetto incardinato nell’organizzazione ma per fini estranei agli scopi di questa”
(ex multis, Cass. Pen., Sez. IV, sent. 8 gennaio 2021, n. 32899).
Dunque: l’ente può e deve essere chiamato a rispondere, in via esclusiva, per un fatto che possa essere qualificato come “proprio”.
Quanto sopra, tuttavia, non appare sufficiente, a parere dei giudici di legittimità, ad escludere inammissibili meccanismi di imputazione oggettiva.
Tale rischio, invece, si ritiene possa essere contenuto grazie al requisito della cd. colpa di organizzazione.
Sussiste la cd. colpa di organizzazione, ricorda la Suprema Corte, laddove alla società possa essere rimproverato di
“non avere predisposto un insieme di accorgimenti preventivi idonei ad evitare la commissione di reati del tipo di quello realizzato”
(ex multis, Cass. Pen., Sez. VI, sent. 18 febbraio 2010, n. 27735). Si tratta, detto altrimenti, del caso in cui il reato-presupposto si sia verificato a causa di un “assetto organizzativo negligente” dell’ente, viziato, cioè, dalla
“inottemperanza […] dell’obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo”
(cfr. SS.UU, sent. 24 aprile 2014, n. 38343).
La cd. colpa di organizzazione, dunque, rappresenta un elemento costitutivo del fatto tipico, non diversamente dalla colpa con riferimento alla responsabilità penale delle persone fisiche.
Tale elemento, tuttavia, non può ritenersi integrato dalla “mera” mancata adozione di un Modello Organizzativo e Gestionale ma, di contro, postula un puntale accertamento da parte degli organi inquirenti.
In altri termini, l’omessa implementazione del Sistema 231 può rappresentare un elemento sintomatico della cd. colpa di organizzazione la quale
“va però specificamente provata dall’accusa, mentre l’ente può dare dimostrazione della assenza di tale colpa”.
Conclusivamente, la Suprema Corte ha statuito il principio di diritto secondo il quale “l’assenza del modello, la sua inidoneità o la sua inefficace attuazione non sono ex se elementi costituitivi dell’illecito dell’ente”. Sono, di contro, elementi indefettibili ai fini della responsabilità amministrativa dell’ente:
- la verificazione, ad opera di un soggetto interno alla struttura dell’ente, di una ipotesi criminosa annoverata nel catalogo dei reati-presupposto che sia commesso nell’interesse dell’ente ovvero abbia cagionato un vantaggio per quest’ultimo;
- la sussistenza della cd. colpa di organizzazione in capo all’ente;
- la sussistenza del nesso di causalità tra i predetti due elementi.