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I dati statistici degli ultimi anni, che trovano, peraltro, empirico riscontro nelle pratiche pendenti presso i tribunali italiani, attestano un costante incremento degli episodi di inadempimento contrattuale che possono assumere un profilo di illiceità penale.
In siffatto contesto, le vittime tendono, talvolta, a trascurare che il rapporto contrattuale è suscettibile di assumere possibile rilevanza penale in presenza di condotte dei contraenti che, oltre ad essere inadempienti rispetto alle obbligazioni assunte, si appalesino ispirate a malafede e scorrettezza.
Ignorare la possibilità di accompagnare l’azione civile per il risarcimento del danno e/o le restituzioni con iniziative di carattere penale, significa precludersi, aprioristicamente, una strada che potrebbe consentire di ottenere soddisfacenti risultati, soprattutto in ragione dei tempi di intervento dell’autorità giudiziaria penale che sono solitamente più ridotti rispetto all’ambito civile.
Sul tema, però, una premessa è d’obbligo.
Una cosa è l’illecito civile, e cioè l’inadempimento, ex se, di una obbligazione, altra è l’illecito penale, e cioè il reato, sia esso un delitto o una contravvenzione a seconda delle fattispecie configurabili.
Il confine, estremamente sottile e di non sempre agevole inquadramento, in più occasioni viene travalicato, così determinando la sovrapponibilità del duplice profilo di illiceità, penale e civile, in capo alla medesima fattispecie di inadempimento.
Di regola, dunque, l’inadempimento contrattuale non è, di per sé, un reato, ma un mero illecito civile, come tale, fonte esclusivamente di responsabilità per il risarcimento del danno e le restituzioni.
Come tutte le regole che si rispettino, però, anche questa incontra delle eccezioni, giacché, nell’ambito di un rapporto contrattuale, a prescindere dalla legittimità o meno dell’atto negoziale in sé, possono sussistere comportamenti idonei ad integrare gli estremi di fattispecie penalmente rilevanti.
Ad esempio, perché la volontà negoziale di uno dei contraenti è stata determinata dalla condotta ingannevole della controparte che ha convinto la vittima a stipulare un contratto che in altre circostanze non avrebbe firmato.
O ancora, perché uno dei contraenti, al momento di contrarre l’obbligazione, ha celato alla controparte il proprio stato di insolvenza con il preordinato fine di non eseguire la prestazione dovuta.
Nel primo caso sarà configurabile il delitto di truffa, in particolare di c.d. truffa contrattuale, mentre nel secondo il delitto di insolvenza fraudolenta.

a) c.d. truffa contrattuale
Il primo dei due reati testé individuati corrisponde ad una particolare figura di truffa, di elaborazione giurisprudenziale, che ricorre quando un soggetto, per effetto degli artifizi e dei raggiri adoperati dalla controparte, è indotto in errore e si determina a compiere un atto di disposizione patrimoniale consistente nella stipulazione di un contratto che diversamente non avrebbe concluso.
In altri termini, il consenso contrattuale di una delle parti non è frutto di una libera scelta, ma dell’errore derivante dall’inganno perpetrato dal soggetto attivo del reato.
Per la configurabilità di tale fattispecie di reato è necessaria una condotta ingannatoria positiva (artifizi o raggiri) da parte di uno dei contraenti in danno dell’altro, l’induzione in errore della vittima, il compimento dell’atto di disposizione patrimoniale (elemento implicito ma essenziale della truffa) da parte della vittima, nonché la realizzazione di un ingiusto profitto a favore del soggetto agente (o di un terzo) con altrui danno.
Il comportamento ingannatorio del contraente non deve necessariamente essere perpetrato al momento della conclusione dell’accordo, ma può anche essere posto in essere nella fase preparatoria (trattative) o in quella esecutiva del contratto.
Occorre tenere presente due aspetti particolarmente interessanti che la giurisprudenza di legittimità non ha mancato di evidenziare:
che gli artifizi e raggiri richiesti per la sussistenza del reato possono consistere anche nel silenzio maliziosamente serbato su alcune circostanze essenziali del contratto da parte di chi abbia il dovere di farle conoscere, indipendentemente dal fatto che dette circostanze siano conoscibili dalla controparte con l’uso della ordinaria diligenza (in tal senso, ex plurimis, Cass. Pen., Sez. II, 30.10.2009, n. 41717);
che sussiste il reato di truffa contrattuale anche nell’ipotesi in cui il contratto sia economicamente equilibrato, giacché il fatto che uno dei contraenti abbia concluso l’accordo negoziale per effetto dell’inganno ad opera della controparte, costituisce di per sé un pregiudizio idoneo ad integrare gli estremi della fattispecie. Quindi, anche qualora venga pagato un giusto corrispettivo, a fronte della prestazione truffaldinamente conseguita, sussiste la fattispecie penalmente rilevante, posto che l’illecito si realizza per il solo fatto che la parte sia addivenuta alla stipulazione del contratto, che altrimenti non avrebbe stipulato, in ragione degli artifizi e raggiri posti in essere dall’agente (in tal senso, ex plurimis, Cass. Pen., Sez. II, 22.12.2008, n. 47623). Sul punto si registra, però, anche un opposto orientamento della Suprema Corte secondo il quale la truffa contrattuale a prestazioni equivalenti richiede, comunque, per il suo perfezionamento, uno specifico ed effettivo danno economico patrimoniale in capo al soggetto passivo, nella forma del danno emergente o del lucro cessante.

Deve segnalarsi che il delitto de quo è, di norma, procedibile a querela della persona offesa che deve essere presentata entro 3 mesi dalla notizia del fatto che costituisce il reato (nella truffa contrattuale, quindi, il dies a quo non coincide necessariamente con la data di stipulazione del contratto o dell’inadempimento, ma con il momento, anche successivo, in cui la vittima abbia avuto conoscenza precisa, certa e diretta del fatto delittuoso, in maniera da possedere tutti gli elementi di valutazione onde determinarsi).
Qualora ricorrano circostanze aggravanti (a titolo meramente esemplificativo: l’aver cagionato alla vittima un danno patrimoniale di rilevante gravità, l’aver approfittato di un particolare rapporto di fiducia con la vittima, l’aver commesso il fatto ingenerando nella vittima il timore di un pericolo immaginario) il reato in esame diviene procedibile d’ufficio, con il corollario che l’atto di impulso del procedimento penale, attraverso il quale la notizia di reato viene portata a conoscenza delle competenti autorità, non sarà più la querela della persona offesa, ma l’atto di denunzia rispetto al quale, ovviamente, non è previsto alcun termine.
Con riferimento, infine, alle conseguenze di un contratto concluso per effetto di truffa di uno dei contraenti in danno dell’altro, la cui sussistenza sia stata accertata in sede penale, l’atto negoziale non può considerarsi, per costante giurisprudenza, radicalmente “nullo” (cioè come se non fosse mai stato concluso) ma “annullabile” dal giudice civile su istanza dell’interessato, dal momento che il dolo, quale elemento soggettivo del delitto di truffa, è del tutto assimilabile a quello che vizia il consenso negoziale, entrambi consistendo in artifizi o raggiri diretti ad indurre in errore la controparte, così viziandone il consenso.

b) L’insolvenza fraudolenta
Volendo semplificare è possibile sostenere che, sostanzialmente, il delitto di insolvenza fraudolenta si distingue da quello di truffa, di cui si è detto sinora, per il fatto che nella fattispecie di cui all’art. 640 c.p. la frode è attuata mediante la simulazione di circostanze e di condizioni non vere, rappresentate artificiosamente per indurre la controparte in errore, mentre nella insolvenza fraudolenta la frode è realizzata attraverso una condotta tesa a dissimulare il reale stato di insolvenza del soggetto agente.
La dissimulazione dello stato di insolvenza è, dunque, l’elemento nodale sul quale il legislatore ha fondato la differenza tra le due fattispecie penalmente rilevanti, laddove “dissimulare lo stato di insolvenza” significa nascondere la propria incapacità di adempiere, con la volontà di assumere l’obbligazione di una prestazione che si sa già non potrà essere eseguita.
La dissimulazione può realizzarsi attraverso una svariata gamma di comportamenti umani, positivi o negativi, tra i quali rientrano anche la menzogna, la reticenza o il silenzio.
Per la integrazione della fattispecie de qua è condizione indefettibile che lo stato di insolvenza, oggetto di dissimulazione, sussista nel momento in cui è assunta l’obbligazione, a nulla rilevando, dall’angolo visuale della rilevanza penale, la mera insolvenza sopravvenuta, neppure nel caso in cui sia procurata intenzionalmente allo scopo di non adempiere (in siffatta ipotesi potrebbero essere configurabili altre tipologie delittuose, ma non quella in esame).
Oltre alla dissimulazione dello stato di insolvenza, gli ulteriori elementi della predetta fattispecie criminosa sono costituiti da:
l’assunzione di una obbligazione con lo specifico proposito di non adempierla.
La preordinazione dell’inadempimento è il dato che consente di attribuire rilevanza penale all’inadempimento che, viceversa, qualora non sia preceduto da alcuna preordinazione, rimane un mero illecito civile da far valere nella opportuna sede.
Alla obbligazione deve corrispondere una prestazione a carico della persona offesa (circostanza che esclude dall’ambito applicativo della disposizione incriminatrice le obbligazioni a titolo gratuito). Si deve, poi, trattare di una obbligazione di dare, poiché solo a tale tipologia di obbligazione è ancorabile il concetto di insolvenza. Infine, l’obbligazione assunta dal soggetto agente deve essere perfettamente valida ed efficace, giacché solo in questo caso può legittimamente sorgere l’obbligo di adempiere (sono, dunque, comprese le obbligazioni annullabili, ma non quelle invalide per causa illecita).
L’inadempimento della obbligazione assunta.
L’inadempimento costituisce l’ultima fase dell’iter criminoso seguito dal soggetto agente ed è pertanto elemento costitutivo del reato (evento) e non condizione obiettiva di punibilità (tesi, questa, comunque sostenuta da autorevole dottrina e da un minoritario orientamento giurisprudenziale). Al riguardo, occorre evidenziare che l’inadempimento non è configurabile qualora il termine per la prestazione dovuta non sia ancora scaduto, fermo restando che, nel caso di più prestazioni periodiche, il pagamento meramente sporadico e saltuario di solo alcuni degli obblighi assunti non fa venir meno la sussistenza del reato.
Qualora l’obbligazione sia adempiuta dal debitore prima della pronuncia definitiva di condanna (cristallizzata dunque nell’ambito di una sentenza passata in giudicato), è espressamente prevista, dall’art. 641, comma 2, c.p., la estinzione del reato.

Il delitto di insolvenza fraudolenta è perseguibile sempre – e, dunque, anche in presenza di circostanze aggravanti, a differenza della truffa contrattuale – a querela della persona offesa che deve essere presentata, come anzidetto, entro 3 mesi dalla notizia del fatto-reato.
Il termine decorre non già dalla data in cui si verifica l’inadempimento della obbligazione, ma da quella in cui il creditore acquisisce la ragionevole consapevolezza che l’obbligato, contraendo l’obbligazione, aveva dissimulato il proprio stato di insolvenza ed aveva contratto l’obbligazione col proposito di non adempierla (in alcune fattispecie concrete, ad esempio, la Suprema Corte ha ritenuto termine iniziale il momento in cui il creditore ha esperito il tentativo di esecuzione forzata nei confronti del debitore).
Delineati, seppur sommariamente, i contorni di due possibili fattispecie penalmente rilevanti direttamente connesse ad episodi di inadempimento contrattuale, al fine di sgombrare il campo da qualsiasi possibile equivoco, appare necessaria un’ultima importante precisazione che attiene al rapporto tra azione civile e azione penale con riferimento a quelle situazioni di inadempimento che presentano caratteristiche tali da integrare sia un illecito civile che una fattispecie di reato.
La eventuale presentazione della querela, invero, non impedisce la contestuale iniziativa in sede civile, ben potendo, le due azioni, essere proposte contemporaneamente e perfettamente coesistere, almeno sino ad un dato momento processuale, allorquando la vittima/danneggiato dal reato è chiamata a decidere se esercitare o meno l’azione civile nell’ambito del processo penale.
La vittima, ad esempio, di una truffa contrattuale o di una insolvenza fraudolenta può, infatti, costituirsi parte civile nel processo penale, esercitando, cioè, in quella sede una azione civile volta ad ottenere il risarcimento dei danni cagionati dalla condotta illecita posta in essere dalla controparte contrattuale.

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