In una recente e innovativa pronuncia la Corte di Cassazione (cfr. Cass., Sez. VI, n. 13936, ud. 11.01.2022, dep. 11.04.2022) ha affermato che
“in attuazione del principio di proporzionalità della misura cautelare, il giudice possa autorizzare il dissequestro parziale delle somme sottoposte a sequestro preventivo finalizzato alla confisca per consentire all’ente di pagare le imposte dovute sulle medesime quale profitto di attività illecite, quando l’entità del vincolo reale disposto, pur legittimamente, determinato in misura corrispondente al prezzo o al profitto del reato rischi di determinare, anche in ragione dell’incidenza dell’obbligo tributario, già prima della definizione del processo, la cessazione definitiva dell’esercizio dell’attività dell’ente”.
La pronuncia in esame ha origine nella vicenda cautelare relativa alla disposizione di un sequestro preventivo funzionale alla confisca avente ad oggetto le somme nella disponibilità di una società, in quanto le stesse erano state ritenute dall’accusa e, successivamente, dall’organo giurisdizionale profitto del reato presupposto di traffico di influenze illecite di cui all’art. 346 bis c.p..
Secondo l’impostazione accusatoria, infatti, tali somme sarebbero state lucrate dai legali rappresentanti della società attraverso una attività di illecita mediazione sulla fornitura di mascherine prive dei requisiti di sicurezza, condotta nel corso dell’anno 2020 mediante lo sfruttamento della relazione personale con il Commissario Nazionale per l’emergenza Covid. I beni vincolati rappresentavano i ricavi conseguiti nell’anno 2020 ed erano sottoposti solo successivamente, nel corso dell’anno 2021, a vincolo reale mediante provvedimento adottato dal Giudice per le indagini preliminari.
Dopo la disposizione della misura di carattere reale, la società presentava al giudice istanza di dissequestro delle somme sottratte alla sua disponibilità, al fine di provvedere al pagamento delle imposte dirette; a seguito del rigetto dell’istanza, la società proponeva appello ex art. 322 bis c.p.p e, successivamente, a fronte del rigetto dell’impugnazione proposta da parte del Tribunale, ricorso per cassazione avverso la suddetta ordinanza di rigetto.
In particolare, la società chiedeva lo svincolo parziale delle somme sequestrate allo scopo di adempiere all’obbligo tributario, rispetto al quale l’ente non aveva disponibilità ulteriori e diverse da quelle già in vinculis per provvedere al pagamento delle imposte dovute.
Nel decidere il caso di specie, la Corte di legittimità si sofferma, in particolare, sull’esegesi della disposizione di cui all’art. 14 comma 4 della legge n. 537 del 1993 e sulla sua rilevanza ai fini della determinazione del profitto confiscabile.
Come noto, la disposizione citata prevede che
“nelle categorie di reddito di cui all’art. 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, devono intendersi ricompresi, se in esse classificabili, i proventi derivanti da fatti, atti, o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale. I relativi redditi sono determinati secondo le disposizioni riguardanti ciascuna categoria. […]”.
Alla luce di tale previsione, per la tassazione dei proventi da attività illecita devono sussistere due condizioni, ossia la riconducibilità delle somme a una delle categorie previste dal sistema delle imposte dei redditi ex art. 6 D.P.R. 22.12.1986, n. 917 e la mancata soggezione a un vincolo di carattere reale (sequestro o confisca).
In ordine al secondo profilo si osserva che secondo la costante giurisprudenza di legittimità civile l’esclusione dei proventi da attività illecite dalla base imponibile opera a condizione che il provvedimento ablatorio intervenga, al più, entro la fine del periodo d’imposta cui il provento si riferisce, perché in tale caso viene meno il presupposto del possesso del reddito prima dell’insorgenza dell’obbligo dichiarativo.
Secondo il diritto vivente, dunque, nel caso di specie sussisterebbe l’obbligazione tributaria in relazione ai proventi asseritamente illeciti, essendo il sequestro preventivo intervenuto in un periodo d’imposta successivo a quello nel quale sono maturati gli stessi proventi.
Tuttavia, come osservato dalla ricorrente, ciò comporterebbe il combinarsi di due prelievi distinti sulle medesime somme: il primo a titolo di confisca del profitto del reato e il secondo derivante dalla sottoposizione a tassazione delle stesse.
Nell’accogliere il motivo di ricorso proposto circa l’erronea applicazione dell’art. 14, comma 4 cit., la Corte di legittimità osserva in primis che, a differenza di quanto espressamente previsto in relazione ai reati tributati, ove il meccanismo delineato dall’art. 12- bis, comma 2 d.lgs. n. 74 del 2000 contempla una riduzione della confisca in ragione dell’impegno dell’ente al successivo pagamento del debito tributario, il legislatore nulla dice sul punto nell’ambito della responsabilità da reato dell’ente.
Nessuna disposizione, infatti, prevede lo svincolo parziale delle somme sequestrate a fini di confisca per pagare le imposte sui redditi illecitamente lucrati attraverso la commissione del reato presupposto.
Pur a fronte di tale silenzio, tuttavia, in base a un’interpretazione costituzionalmente orientata del principio di proporzionalità della misura cautelare, la Corte di legittimità ammette il parziale dissequestro delle somme assoggettate a vincolo reale, laddove ciò si renda necessario per evitare che, mediante l’adempimento dell’obbligo tributario, da un lato, e il mantenimento del vincolo di indisponibilità, dall’altro, si produca una cessazione definitiva dell’esercizio dell’attività dell’ente prima della definizione del processo.
In tale eventualità, infatti, il sequestro non assolverebbe soltanto alla sua fisiologica funzione di apprensione coattiva del profitto o prezzo del reato, ma comporterebbe, altresì, un eccessivo sacrificio di diritti costituzionalmente garantiti, tra cui il diritto di proprietà e la libertà di esercizio dell’attività d’impresa, eccedendo quanto strettamente necessario rispetto al fine perseguito.
In tale eventualità il sequestro finalizzato alla confisca
“si tradurrebbe […] in una forma di interdizione definitiva dell’attività di cui all’articolo 16 comma 3, del d. lgs. n. 231 del 2001, operante già in sede cautelare e indipendentemente da un’affermazione definitiva di responsabilità dell’ente”.
In conclusione, la Corte osserva che
“il giudice […] all’atto dell’azione della misura cautelare reale e nella sua successiva dinamica esecutiva, deve evitare che il vincolo reale, eccedendo le proprie finalità ed esorbitando dall’alveo dei propri effetti tipici, si risolva in una sostanziale inibizione per l’operatività economica del soggetto attinto dal sequestro, sino a determinarne la paralisi o la cessazione definitiva”.