La Cassazione, con la sentenza in oggetto, torna a pronunciarsi in tema di “esterovestizione” societaria e sul concetto di “stabile organizzazione”.
Al riguardo, giova, anzitutto, ricordare come, ai sensi dell’art. 73, TUIR (D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 “Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi”), sono sottoposte al regime tributario italiano, relativamente alle imposte sui redditi, le società “residenti” in Italia, con tale espressione intendendosi quelle realtà societarie che presentino i requisiti di cui all’art. 73, comma 3, TUIR.
Siffatta disposizione, in particolare, prevede che “ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le società e gli enti che per la maggior parte del periodo di imposta hanno la sede legale o la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale nel territorio dello Stato”. Coerente con tali contenuti appare, altresì, l’art. 4 del modello OCSE (il modello di Convenzione contro la doppia imposizione elaborato dall’OCSE, “Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico”) il quale, nella sostanza, rinvia ai medesimi parametri previsti dal TUIR.
Ne consegue, ovviamente, che la mancata presentazione della dichiarazione relativa all’imposta sul reddito da parte dei predetti soggetti integra, in presenza dei requisiti richiesti dall’art. 5 del D.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 (“Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma dell’articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205”), il delitto di omessa dichiarazione.
Sussistono, tuttavia, casi in cui una società sia da considerarsi soggetta all’imposizione fiscale reddituale italiana, anche se fiscalmente residente all’estero.
Si tratta del caso in cui tali società – formalmente “estere” – presentino una cd. stabile organizzazione in Italia (ex plurimis Cass. Sez. III, sent. 24 luglio 2013, n. 32091; Cass. Sez. III, sent. 23 febbraio 2012, n. 7080).
Siffatta impostazione, peraltro, è ripresa proprio dalla sentenza in commento.
La Suprema Corte ha, in particolare, precisato che una società estera manifesta una cd. stabile organizzazione in Italia allorché “la gestione amministrativa” della stessa, l’assunzione delle “decisioni strategiche, industriali e finanziarie, nonché la programmazione di tutti gli atti necessari affinché sia raggiunto il fine sociale” venga svolta nel territorio nazionale, risultando a tal fine irrilevante “il luogo di adempimento degli obblighi contrattuali e dell’espletamento dei servizi”.
Tali criteri, sottolinea la Suprema Corte, si pongono evidentemente in linea con i requisiti previsti, ai fini della determinazione della residenza fiscale di una persona giuridica, dall’art. 73, comma 3 TUIR, ed evidenziati, poc’anzi, in premessa.
La predetta nozione di cd. stabile organizzazione, peraltro, è finalizzata ad assicurare che una società sia sottoposta agli obblighi tributari previsti dalla legislazione dello Stato in cui la stessa detiene il proprio “centro direttivo ed amministrativo”, inteso come luogo in cui si svolge la “gestione” della impresa e vengono promanati “atti giuridici rilevanti”.
La Cassazione prosegue statuendo, altresì, come anche la cd. stabile organizzazione in Italia, da parte di una società estera, può configurare un caso di esterovestizione societaria.
La Suprema Corte afferma, invero, che “le società estero vestite non sono, per ciò soltanto, necessariamente prive della loro autonomia giuridico-patrimoniale e, quindi, automaticamente qualificabili come “schermi” ovvero enti artificiosamente costruiti”.
E, dunque, dovrà ritenersi configurato il fenomeno de quo, anzitutto, ove la società straniera risulti essere una realtà del tutto fittizia della quale l’amministratore si serva al fine di agire quale “effettivo titolare”. È questo il caso delle “società-schermo”.
A tale eventualità, però, se ne aggiunge una diversa, ossia il caso in cui la società, nonostante mantenga caratteristiche di autonomia a livello giuridico e operativo, abbia una “sede fissa di affari nel territorio italiano” e l’attività svolta in Italia avvenga “mediante una organizzazione di persone e di mezzi, ma senza dichiarare i relativi proventi dalla stessa generati e ad essa direttamente imputabili”. Trattasi di cd. stabile organizzazione occulta.
Anche in questa seconda ipotesi, dunque, la società attenzionata assume il carattere di società cd. esterovestita, con tutto quel che ne consegue in termini di sottoposizione della medesima all’obbligo dichiarativo, ai sensi dell’ordinamento fiscale italiano.
I giudici di legittimità, peraltro, si premurano di assicurare la conformità di tale approccio interpretativo con quanto costantemente affermato dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia della Unione Europea in subiecta materia.
Ed invero, la Corte comunitaria, da un lato, attesta come non costituisca abuso della libertà di stabilimento la collocazione della sede legale di una società in un determinato Stato membro allo scopo di poter fruire di una legislazione più vantaggiosa, e, dall’altro lato, che le restrizioni nazionali alla libertà di stabilimento sono ammissibili solo se dirette ad impedire “costruzioni puramente artificiose, prive di effettività economica” (cfr. CGUE, C-196/04 Cadbury Schweppes, sent. 12 settembre 2006, pt. 37 e 55).
La Cassazione, dal canto suo, sostiene che l’esistenza di “una stabile organizzazione occulta” sul suolo italiano, sia sufficiente ad attribuire carattere di artificiosità alla società avente residenza fiscale all’estero.
In siffatte eventualità, invero, la circostanza che la società estera manifesti una cd. stabile organizzazione in Italia – mediante la quale eserciti in tutto in parte la propria attività e della quale tuttavia non dichiari i proventi – rende la forma giuridica adottata dalla società non conforme alla genuina ed effettiva realtà economica e ciò, nonostante quest’ultima non assuma le fattezze di una mera “società-schermo”.
Si è in presenza, in altri termini, di “costruzioni puramente artificiose, prive di effettività economica”, costituenti, alla stregua della giurisprudenza comunitaria, abuso della libertà di stabilimento e, dunque, meritevoli di censura.
Nessun contrasto, quindi, tra i due approcci ermeneutici, quello nazionale, da un lato, e quello della Corte di Giustizia della Unione Europea, dall’altro.
Da ultimo, i giudici di legittimità chiariscono le differenze intercorrenti tra le due diverse ipotesi di esterovestizione, in punto di sequestro preventivo finalizzato alla confisca del profitto.
In base all’art. 12-bis del D. Lgs. 74/2000, infatti, in caso di condanna (o applicazione della pena su richiesta delle parti) per uno dei delitti previsti dal menzionato decreto, la confisca per equivalente può essere disposta, in via esclusiva, ove non sia possibile procedere con quella in forma specifica.
La Cassazione, tuttavia, precisa come tale disposizione normativa non si applichi allorché la società, ritenuta esterovestita, sia una “società-schermo”.
Tale conclusione, peraltro, si giustifica in ragione del fatto che, in ipotesi di tal fatta, l’amministratore della società cd. esterovestita commette un reato solo apparentemente a vantaggio dell’ente, ma in realtà a proprio favore.
La società rappresenta una realtà artificiosamente creata quale “schermo”, appunto, dell’attività svolta altrove, rispetto alla sede legale dichiarata, e il trasferimento del profitto in capo alla società non è effettivo ma solo fittizio.
Di conseguenza, “il denaro o il valore trasferito devono ritenersi ancora pertinenti, sul piano sostanziale, alla disponibilità del soggetto che ha commesso il reato” (Cass. Sez. III, sent. 7 novembre 2018, n. 50151), di talché, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca del profitto potrà essere disposto, oltre che sui beni della società, direttamente su quelli dell’amministratore-autore del reato, contrariamente a quanto disposto dall’art. 12-bis, D. Lgs. 74/2000.
– Cass. Sez. III, sent. 16 marzo 2020, n. 10098 –