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È stato, di recente, chiesto alla Corte Costituzionale di esprimersi con riferimento alla legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 6, lett. b), della Legge 9 gennaio 2019, n. 3 (“Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici”), la c.d. Legge “Spazzacorrotti”.

In forza della predetta disposizione normativa, sono stati introdotti nel catalogo dei delitti già previsti dall’art. 4-bis, dell’Ordinamento Penitenziario (Legge 26 luglio 1975, n. 354, “Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà”), i delitti contro la pubblica amministrazione e, segnatamente, quelli previsti dagli artt. 314, c. 1, 317, 318, 319, 319 bis, 319 ter, 319 quater, c.1, 320, 321, 322, 322 bis c.p.

Tale previsione trova applicazione a decorrere dal 31 gennaio 2019.

Ciò significa, nella sostanza, che coloro che siano ristretti in ragione di uno dei reati testé richiamati incorrono nel “Divieto di concessione dei benefici e accertamento della pericolosità sociale dei condannati per taluni delitti”, previsto, appunto, dal predetto articolo 4-bis O.P.

Con l’espressione “benefici”, si intende far riferimento, nello specifico, alla possibilità di essere assegnati al lavoro all’esterno, ai permessi premio e alla concessione delle misure alternative alla detenzione, ad esclusione della liberazione anticipata.

Siffatte misure possono essere concesse ai soggetti ristretti per i reati annoverati nell’art. 4-bis O.P. solo ove questi ultimi collaborino con la giustizia, nei casi e nei modi di cui all’art. 58-ter O.P., ovvero, nel caso in cui gli stessi si siano efficacemente adoperati “per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, per assicurare le prove dei reati e per l’individuazione degli altri responsabili ovvero per il sequestro delle somme o altre utilità trasferite”, ai sensi dell’art. 323, comma 2, c.p., eventualità, quest’ultima, introdotta dalla stessa Legge “Spazzacorrotti”.

La Corte Costituzionale ha, peraltro, precisato con riferimento alla seconda delle summenzionate ipotesi, come il richiamo effettuato, dall’art. 4-bis, O.P., all’art. 323-bis, comma 2, c.p., implica che le forme di collaborazione da quest’ultimo descritte potranno essere realizzate – ed avere valore ai fini dell’art. 4-bis O.P. – anche nella fase successiva alla condanna.

Ulteriori ripercussioni “preclusive” si riscontrano con riferimento alla liberazione condizionale.

Ed invero, l’art. 2, D.L. 152/1991 (convertito nella Legge 12 luglio 1991, n. 203), prevede che i condannati per i delitti indicati nell’art. 4-bis, comma 1, O.P. possono essere ammessi alla liberazione condizionale solo se ricorrono le condizioni previste dallo stesso comma per la concessione dei “benefici”.

In ultimo, i menzionati delitti contro la P.A. non possono più beneficiare della sospensione dell’ordine di esecuzione della pena detentiva prevista dall’art. 656, comma 5 c.p.p.

Se, infatti, tale articolo prevede che il Pubblico Ministero, entro certi limiti di pena, debba procedere alla emissione del decreto di sospensione dell’ordine di esecuzione, è altrettanto vero che lo stesso articolo, al comma 9, lett. a), prevede di contro che tale adempimento non debba effettuarsi “nei confronti dei condannati per i delitti di cui all’articolo 4 bis della legge 26 luglio 1975, n. 354”e , dunque, anche nei confronti di coloro che sono stati condannati per uno dei reati contro la Pubblica Amministrazione introdotti, al comma 1 dell’art. 4-bis O.P., dalla Legge “Spazzacorrotti”.

Ebbene, nonostante l’indubitabile pregnanza delle conseguenze rivenienti dalle modifiche introdotte dalla Legge “Spazzacorrotti”, sinora descritte, il legislatore del 2019 nulla ha disposto in ordine all’efficacia temporale delle stesse.

Alla luce di tale silenzio legislativo, si è ritenuto applicabile l’art. 1, comma 6, lett. b), Legge “Spazzacorrotti” (e le relative ripercussioni preclusive) anche nei confronti dei condannati, per uno di tali reati richiamati dal predetto articolo, che stiano ancora scontando la pena, sebbene abbiano commesso il fatto anteriormente all’entrata in vigore della Legge.

A riprova di siffatta impostazione, è solo il caso di rilevare l’orientamento ermeneutico maggioritario manifestato dai giudici di legittimità, alla stregua del quale il summenzionato art. 1, comma 6, lett. b), Legge “Spazzacorrotti”, non rientra nell’ambito di applicazione del secondo comma dell’art. 25 Cost. (ex plurimis Cass., Sez. Un., sent. 17 luglio 2006, n. 24561; Cass., Sez. I, sent. 6 giugno 2019, n. 25212).

Non trova, dunque, applicazione nei casi che ne occupano il divieto di applicazione retroattiva di una norma incriminatrice, previsto appunto dall’art. 25, comma 2, Cost., intendendosi per “norma incriminatrice” sia quella che prevede ex novo una nuova fattispecie di reato, sia quella che si limiti ad aggravare il regime sanzionatorio e le conseguenze giuridiche relativi ad un reato già previsto come tale dalla legge.

Siffatto divieto, infatti, opera come noto esclusivamente per le norme di diritto penale sostanziale e, per tale ragione, non è stato ritenuto valevole con riferimento alle disposizioni di cui all’art. 4-bis O.P. in ragione della attinenza che quest’ultimo manifesta con la fase di esecuzione della pena.

A tale approccio interpretativo, tuttavia, si è opposta, proprio, la Corte Costituzionale con la pronuncia in oggetto, nell’ambito della quale dichiara che l’interpretazione dell’art. 1, comma 6, lett. b), della Legge “Spazzacorrotti”, sinora fornita dai giudicanti, è in contrasto con l’art. 25, comma 2, Cost. e, quindi, costituzionalmente illegittima.

La Corte Costituzionale, in particolare, condivide la premessa, propria della giurisprudenza formatasi in subiecta materia, secondo la quale “le pene devono essere eseguite – di regola – in base alla legge in vigore al momento dell’esecuzione, e non in base a quella in vigore al tempo della commissione del reato”.

Diversamente opinando, evidentemente, si andrebbero ad instaurare, all’interno del medesimo istituto penitenziario, regimi esecutivi diversi a seconda del momento in cui è stato commesso il fatto di reato, conseguenza, questa, del tutto inaccettabile.

Il Giudice delle Leggi, però, prosegue precisando come siffatto principio – ex se assolutamente condivisibile per la ragioni testé esposte – non può non patire una eccezione nel caso in cui “la normativa sopravvenuta non comporti mere modifiche delle modalità esecutive della pena prevista dalla legge al momento del reato, bensì una trasformazione della natura della pena e della sua concreta incidenza sulla libertà personale del condannato”.

È, quello descritto dalla Corte Costituzionale, proprio il caso della Legge “Spazzacorrotti” che, nella sostanza e alla luce delle conseguenze applicative dianzi rappresentate, comporrebbe, se applicata retroattivamente, l’esecuzione di una pena sostanzialmente diversa rispetto a quella stabilita dalla differente legge vigente al momento della commissione del reato.

Ed invero, come anzidetto, l’introduzione nel novero delle fattispecie incriminatrici di cui al comma 1 dell’art. 4-bis O.P. dei reati contro la Pubblica Amministrazione, comporta, per i soggetti ristretti in ragione di tali delitti, il divieto di concessione dei “benefici” richiamati al predetto comma 1, della liberazione condizionale e del divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione della pena.

La Corte Costituzionale, però, opera una distinzione nel trarre le sue conclusioni, concentrandosi, anzitutto, sulle misure alternative alla pena detentiva, sulla liberazione condizionale e sulla sospensione dell’ordine di esecuzione della pena ex art. 656 c.p.p.

Tali istituti, invero, influenzano notevolmente le modalità e le tempistiche di esecuzione della pena comminata, con la conseguenza che un intervento legislativo che preveda la loro esclusione (o più difficoltosa concessione) cagiona, inevitabilmente, “una trasformazione della natura della pena e della sua concreta incidenza sulla libertà personale del condannato”.

Le prime, infatti, in quanto misure che prevedono forme alternative di esecuzione della pena, incidono, direttamente, proprio sulla “natura” e sulla entità della pena da eseguire, (come riconosciuto anche in un’altra pronuncia dalla Corte Costituzionale in relazione questa volta alla garanzia costituzionale prevista dall’art. 13 comma 2 Cost – C. Cost. sent. n. 349 del 1993).

Non diversamente dallo sconto di pena conseguente alla concessione della liberazione condizionale o dal divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione della pena detentiva, previsto dall’art. 656, comma 9, lett. a), c.p.p. L’applicazione dei quali, afferma la Corte Costituzionale, ha delle ricadute sul lasso temporale che il detenuto dovrà in concreto trascorrere in carcere.

Ne deriva, dunque, che ove le disposizioni della Legge del 2019 fossero applicate retroattivamente, il condannato per uno dei reati contro la Pubblica Amministrazione annoverati nell’art. 6, comma 1, lett. b), si troverebbe a scontare “una pena che è sostanzialmente un aliud rispetto a quella stabilita al momento del fatto […] con conseguente inammissibilità di un’applicazione retroattiva di una tale modifica normativa, al metro dell’art. 25, secondo comma, Cost.”.

Alla luce delle considerazione sinora svolte, la Corte Costituzionale ha, coerentemente, affermato “l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 6, lett. b), della 9 gennaio 2019, n. 3 […] in quanto interpretato nel senso che le modificazioni introdotte all’art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 […] si applichino anche ai condannati che abbiano commesso il fatto anteriormente all’entrata in vigore della legge n.3 del 2019, in riferimento alla disciplina delle misure alternative alla detenzione previste dal Titolo I, Capo VI, della legge n. 354 del 1975, della liberazione condizionale prevista dagli artt. 176 e 177 del codice penale e del divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione previsto dall’art. 656, comma 9, lettera a), del codice di procedura penale”.

Diverso è il caso dei permessi premio e del lavoro all’esterno, benefici, questi, anch’essi richiamati dall’art. 4-bis O.P. dei quali, dunque, ne è preclusa la libera fruizione nei confronti di quei soggetti che siano ristretti in ragione di una delle fattispecie delittuose annoverate nel comma 1.

Ebbene, con riferimento alle conseguenze preclusive che la Legge “Spazzacorrotti” manifesta in ordine alle misure testé richiamate, la Corte ha dichiarato costituzionalmente legittima la applicazione retroattiva dell’art. 1, comma 6, lett. b), cit.

La modifica dei requisiti per l’accesso a tali diversi benefici non ha, infatti, a parere della Corte, l’effetto di incidere sulla natura della pena detentiva comminata e da eseguirsi e, quindi, non si traduce in “una trasformazione della natura della pena e della sua concreta incidenza sulla libertà personale del condannato”.

Il Giudice delle Leggi si preoccupa, però, di puntualizzare come i summenzionati istituti debbano, in ogni caso, essere concessi ai detenuti che, alla data di entrata in vigore della Legge “Spazzacorrotti”, abbiano già raggiunto, in forza della previgente disciplina, i requisiti per la fruizione dei permessi premio e per l’ammissione al lavoro all’esterno.

Se così non fosse, ne verrebbe pregiudicata la ratio pedagogico-propulsiva propria di tali benefici, in quanto la preclusione “totale” di questi ultimi – e, quindi, anche nel caso in cui i relativi requisiti fossero già maturati – equivarrebbe a negare valore al percorso rieducativo sino a quel momento compiuto dal detenuto, in spregio tanto al principio di eguaglianza, quanto alla finalità rieducativa della pena.

La Corte Costituzionale ha, quindi, affermato sul punto “l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, nella parte in cui non prevede che il beneficio del permesso premio possa essere concesso ai condannati che, prima dell’entrata in vigore della medesima legge, abbiano già raggiunto, in concreto, un grado di rieducazione adeguato alla concessione del beneficio stesso”.

 

– C. Cost. sent. del 26 febbraio 2020, n. 32 –