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Il fenomeno del mobbing, per quanto le sue origini siano tutt’altro che recenti ha fatto ingresso nelle aule di giustizia italiane solo negli ultimi quindici anni, divenendo oggetto di attenzione e studio da parte della magistratura.
A prescindere dall’analisi sociologica del fenomeno, il mobbing  presenta interessanti peculiarità con riguardo al suo inquadramento normativo nell’ambito dell’ordinamento italiano.
Il legislatore penale, infatti, non è mai intervenuto, quanto meno fino ad oggi, attraverso l’elaborazione di una fattispecie astratta di parte speciale ad hoc omettendo, quindi, di creare uno strumento penalistico specificamente finalizzato alla repressione del fenomeno.
Ciononostante, sarebbe errato ritenere che l’ordinamento penale sia del tutto indifferente al mobbing. Infatti, laddove il legislatore tace e rimane inerte, è, come sempre, la giurisprudenza ad intervenire, nel tentativo di ovviare alle lacune normative e tutelare il singolo anche a fronte di realtà non cristallizzate in fattispecie astratte.
Le corti di merito e, non di meno, il giudice di legittimità – da ben quindici anni e con soluzioni a volte radicalmente contrastanti – si sforzano di ricondurre ipotesi sociologicamente ascrivibili alla categoria del mobbing a fattispecie penali originariamente introdotte per far fronte a fenomeni anche distanti da quello in esame.
Al fine di visualizzare in maniera piena ed effettiva il panorama giurisprudenziale in tema di mobbing, è opportuno, anzitutto, metterne a fuoco gli “elementi costitutivi”. Ed è proprio avendo bene a mente tali elementi che la giurisprudenza, di volta in volta, procede nella selezione della fattispecie maggiormente calzante al singolo caso concreto.
Ebbene, vengono anzitutto in rilievo le considerazioni svolte dalla Corte Costituzionale, con la sent. n. 359 del 2003 che definì il mobbing come “il fenomeno consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posto in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei comportamenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all’obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo”. In tale occasione, peraltro, il giudice delle leggi ebbe anche modo di puntualizzare che “le condotte possono estrinsecarsi sia in atti giuridici veri e propri sia in semplici comportamenti materiali, aventi in ogni caso, gli uni e gli altri, la duplice peculiarità di poter essere, se esaminati singolarmente, anche leciti, legittimi o irrilevanti dal punto di vista giuridico, e tuttavia di acquistare comunque rilievo quali elementi della complessiva condotta caratterizzata nel suo insieme dall’effetto e talvolta, secondo alcuni, dallo scopo di persecuzione e di emarginazione”.
Alla stregua di tale fondamentale pronuncia, gli elementi caratterizzanti la fattispecie di mobbing sono, dunque, essenzialmente quattro:
– la continuità e serialità degli atti che, globalmente considerati, integrano la fattispecie di mobbing;
– l’effetto vessatorio che le suindicate condotte manifestano nei confronti del singolo lavoratore e che può consistere in uno stress meramente psicologico, ovvero in una alterazione dello stato psicosomatico del soggetto;
– il contesto in cui questi comportamenti sono posti in essere, ossia il luogo di lavoro, dovendosi trattare, pur sempre, di condotte intercorrenti tra lavoratori pari-ordinati tra loro (c.d. “mobbing orizzontale”) ovvero in rapporto di subordinazione tra di loro (c.d. “mobbing verticale”);
– in ultimo, dal punto di vista soggettivo, l’animus nocendi, ossia la volontà di arrecare pregiudizio alla vittima destinataria delle condotte vessatorie.
Ciò premesso, è di estremo interesse valutare quali siano le diverse soluzioni che la giurisprudenza italiana ha elaborato al fine di far rientrare siffatte condotte nell’area del penalmente rilevante.

Il “mobbing” e la violenza privata
Secondo l’art. 610 c.p. “chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa è punito con la reclusione fino a quattro anni”.
Al riguardo, si pensi, ad esempio, alla condotta di un datore di lavoro che, con ripetute condotte degradanti e avvilenti (che siano classificabili come “violenze” o “minacce”) favorisca la presentazione di dimissioni da parte della “vittima” ovvero il mancato rinnovo del contratto lavorativo, preordinando il proprio comportamento a tale obiettivo.
Sono presenti, in una ipotesi di tal fatta, tutti gli elementi costitutivi del mobbing, ossia la serialità degli atti, l’animus nocendi, l’effetto vessatorio, o quanto meno il tentativo di provocarlo, e il luogo di lavoro.
In tal caso, d’altro canto, si è effettivamente in un situazione in cui un soggetto, ossia il datore di lavoro, tramite taluni gravi comportamenti, costringe o, quanto meno, tenta di costringere un proprio dipendente, a “fare” o ad “omettere” una determinata attività. Sarebbe, pertanto, possibile punire la condotta del datore di lavoro ai sensi dell’art. 610 c.p. (si veda, ad esempio: Cass. pen., Sez. VI, 08.03.2006, n. 31413; Cass. pen., Sez. VI, 25.11.2010, n. 44803; Trib. Taranto, 07.03.2002, n. 742). Non è un caso, peraltro, che la prima pronuncia in cui i giudici di legittimità si sono occupati ex professo del “mobbing” faccia riferimento, proprio alla fattispecie astratta di violenza privata (Cass. pen., sez. VI, 12.03.2001, n. 10090).
È altrettanto vero, tuttavia, che la norma in esame non riesce a ricomprendere tutte le ipotesi di comportamenti di “mobbing”.
In primo luogo, affinché questo sia possibile è necessario che le singole condotte siano tali da rientrare nella categoria di “violenza” o “minaccia”, non potendo altrimenti essere riconducibili alla “violenza privata”. E, come si è già avuto modo di rilevare, non sempre il “mobbing” si estrinseca in comportamenti, che singolarmente considerati, possano definirsi illeciti.
In secondo luogo, sussiste una radicale differenza tra l’animus tipizzante la fattispecie di violenza privata e quello del “mobber”. Da un lato, invero, l’agente deve finalizzare la propria condotta alla coercizione della volontà altrui, mentre, nell’ipotesi di mobbing, il soggetto attivo agisce unicamente al fine di isolare il lavoratore, con intento, appunto, vessatorio.
La presente soluzione, pertanto, si appalesa come soddisfacente, in termini di repressione penale del fenomeno, esclusivamente in quelle ipotesi di “mobbing” eclatante, caratterizzate da comportamenti di notevole gravità. Al contrario, la fattispecie de qua non sembra essere in alcun modo idonea a colpire le ipotesi di “mobbing” più “subdole” e sfumate nei loro contorni le quali, proprio perché meno percepibili dall’esterno, risultano molto più difficili da debellare.

Il mobbing e le lesioni personali colpose
In taluni casi la giurisprudenza, con riferimento all’ipotesi di mobbing, richiama la fattispecie di cui all’art. 590 c.p., che punisce chiunque, con colpa, cagiona una “lesione personale” ad un altro soggetto, dalla quale derivi una menomazione o disfunzione sul piano fisico ovvero psicologico.
La correttezza di tale soluzione ermeneutica è agevolmente percepibile per quanto attiene a tutte quelle ipotesi in cui il danno al lavoratore derivi dall’inosservanza o dall’esplicita violazione della normativa anti-infortunistica da parte del datore di lavoro il quale non adotti tutte le cautele previste per garantire l’integrità psico-fisica del dipendente, ad esempio imponendogli mansioni e turni ben al di sopra delle relative capacità (Trib. Torino, 01.08.2002). È costante il giudice di legittimità, infatti, nel ritenere che l’elusione colposa degli obblighi derivanti dall’art. 2087 c.c. (che impone all’imprenditore di “adottare nell’esercizio dell’impresa tutte le misure che, secondo le particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”) che provochi danno al lavoratore, sia punibile ex art. 590 c.p. (ex plurimis, Cass. pen., sez. IV, 26.03.2000, n. 7402).
Al riguardo, si pensi a tutte quelle volte in cui il “mobber”, volendo emarginare o, addirittura, eliminare il soggetto dal contesto lavorativo, ponga in essere comportamenti con efficacia lesiva tali da provocare alla vittima uno stato di alterazione fisica o psicologica e ciò attraverso l’attribuzione di turni o compiti “logoranti”, contrari, appunto, alla normativa anti-infortunistica.
Anche con riferimento a questa seconda opzione interpretativa, tuttavia, vi sono delle perplessità. Da un lato, ad onor del vero, non è dato alcun rilievo all’espressa finalizzazione delle condotte lesiva all’eliminazione del dipendente dal contesto di lavoro, elemento che, come poc’anzi ricordato, è estremamente rilevante nell’economia del fenomeno del “mobbing”.
Dall’altro, l’art. 590 c.p. non sembra potersi applicare a tutte le ipotesi di mobbing appalesandosi, anche questa soluzione, come indiscutibilmente parziale.
Si pensi a tutti i casi in cui gli atti, anche considerati nella loro serialità, non siano contrari alla normativa infortunistica ma siano comportamenti, ex se, legittimi o quanto meno indifferenti agli occhi dell’ordinamento. A ciò si aggiunga che, nelle situazioni perseguibili ex art. 590 c.p. potrebbero rientrare solo le ipotesi di “mobbing verticale”, giacché l’art. 2087 c.c. (dal quale deriva la responsabilità ex art 590 c.p.) fa esclusivo riferimento all’ “imprenditore” e non, invece, al collega pari-ordinato.

Il mobbing e lo stalking
La fattispecie di “atti persecutori” è prevista dall’art. 612-bis c.p. che dispone che “salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque, con condotte reiterata, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria …”.
Molteplici sono le affinità che tale disposizione presenta con il fenomeno del mobbing.
In primo luogo, entrambe le condotte sono costituite da plurimi atti reiterati nel tempo.
Non sembra, poi, esservi alcun ostacolo a che tali “atti persecutori” siano posti in essere sul posto di lavoro, tra colleghi o nei confronti di un soggetto subordinato. V’è, anzi, da rilevare come sia stato più volte riscontrato un collegamento incidentale tra situazione lavorativa e comportamenti di “stalking” (si veda, infatti, il fenomeno del cd. “stalking occupazionale”).
A ciò si aggiunga che la fattispecie di “stalking” richiama, quale elemento costitutivo, il “danno” subito dalla vittima in conseguenza dei suddetti atti persecutori.
A ben vedere, un tipico effetto che le condotte di mobbing potrebbero provocare in capo alla vittima è proprio quel “perdurante e grave stato di ansia o di paura” richiamato dall’art. 612-bis c.p.
Non sembra ameno, allora, sostenere che le due fattispecie si pongano in un rapporto di genus ad speciem, giacché l’art. 612-bis c.p. identifica come penalmente rilevanti una serie tutt’altro che esigua di condotte, tra le quali trovano posto anche quelle di mobbing.
Vero è, tuttavia, che per integrare il reato di atti persecutori è necessario che le singole condotte reiterate siano, singolarmente considerate, penalmente rilevanti, dovendosi trattare di “minacce” e/o “molestie”. Sarebbe, allora, più corretto affermare che le sfere di appartenenza dei due fenomeni, per le comuni caratteristiche sopra richiamate, vadano ad intersecarsi creando una comune area di rilevanza nella quale le condotte di “mobbing” possano essere perseguite ex art. 612-bis c.p.

Il mobbing in relazione alla sfera sessuale e alle molestie
A seconda, poi, delle “modalità” attraverso le quali il mobbing si estrinseca, ossia in relazione alla tipologia di atti che ne costituiscono la condotta principale, il suddetto fenomeno è ricondotto alla fattispecie di violenza sessuale (609-bis c.p.), ovvero a quella di molestie (art. 660 c.p.).
Nello specifico, quest’ultima si è dimostrata particolarmente efficace per la repressione di ipotesi “lievi” di mobbing, essendo finalizzata a punire chiunque, “in un luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo, reca a taluno molestia o disturbo è punito con l’arresto fino a sei mesi o con l’ammenda fino a euro 516”.
A ben vedere, infatti, le ipotesi meno gravi di comportamenti di mobbing si concretizzano, perlopiù, in atti fastidiosi, insistenti e petulanti, tutti e sempre preordinati al fine di isolare se non addirittura escludere la vittima dall’organigramma lavorativo (ex plurimis: Trib. Napoli, 22.04.2002; Cass. pen., sez III, 11.10.1995; Pretore di Milano, 31.01.1997).
Il “mobbing”, poi, ha da sempre presentato una stretta correlazione anche con la sfera sessuale. Non a caso, invero, i primi studi condotti in tema di “mobbing”, negli Stati Uniti, sono stati preordinati all’analisi della condizione e dei rischi connessi al lavoro femminile, maggiormente esposto a lesioni della sfera psico-sessuale.
Si tratta di tutti quei casi in cui la condotta del “mobber” si estrinseca in atti maggiormente “aggressivi” rispetto alla mera molestia, concretizzandosi, al contrario, in comportamenti invasivi della sfera sessuale della vittima. Può trattarsi, ad esempio, sia di espressioni verbali, insulti o allusioni, volgari e offensive, che di atti concreti lesivi dell’integrità psico-sessuale del soggetto, di effettiva “violenza” o “minaccia”.
Il reato di violenza sessuale, invero, è finalizzato proprio alla punizione di chi, “con violenza o minaccia o abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali”, sembrando, pertanto, perfettamente adattabile (quanto meno nella forma del tentativo) ad ipotesi quali quelle testé descritte.
Quanto detto si comprende maggiormente se si pensa alla posizione del datore di lavoro o di un soggetto gerarchicamente sovraordinato rispetto alla vittima, i quali, proprio abusando della loro autorità, potrebbero costringere il dipendente a subire atti sessuali al fine di spingerlo a presentare le dimissioni.
È altrettanto vero, tuttavia, che la fattispecie in esame rimane applicabile solo a quelle ipotesi di “mobbing nelle quali il fine e l’effetto vessatorio vengano perseguiti con atti ben più gravi di un comportamento petulante, consistenti, appunto, in “violenze” e “minacce” ovvero “abuso di autorità” (ex plurimis: Cass. pen., sez. III, 01.07.2002, n. 34297).
È, pertanto, opportuno richiamare le riflessioni testé formulate, in relazione al delitto di violenza privata e di atti persecutori. Anche per quanto attiene la fattispecie ex art. 609-bis c.p., infatti, affinché il comportamento di mobbing possa essere perseguito alla stregua di tale disposizione, è necessario che si sostanzi in singoli atti di “minaccia” e/o di “violenza” e/o “abuso di autorità”. Rimangono irrilevanti, al contrario, tutte le ipotesi di mobbing caratterizzate, sì, da una serialità di atti, ma indifferenti se non addirittura legittimi agli occhi dell’ordinamento.

Il mobbing e i maltrattamenti contro familiari e conviventi
La fattispecie delittuosa che sembrerebbe maggiormente aderente al fenomeno del mobbing, quanto meno per come è stato descritto in apertura, è quella di cui all’art. 572 c.p., il quale dispone che “chiunque, fuori dai casi indicati nell’articolo precedente, maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione di un’arte, è punito con la reclusione da due a sei anni”.
Non appare, invero, minimamente revocabile in dubbio che il datore di lavoro, o comunque il superiore gerarchico, rientri perfettamente nella categoria di chi esercita una certa forma di autorità su un altro soggetto, proprio peraltro “per l’esercizio di una professione”.
Il lavoratore dipendente, infatti, è soggetto all’autorità e al potere decisionale e disciplinare di un altro soggetto sia questo il datore di lavoro ovvero un altro subordinato (si veda: Cass. pen., sez. III, 05.06.2008, n. 27469; Cass. pen., sez. V, 09.07.2007, n. 33624; Cass. pen., sez. VI, 12.03.2001, n. 10090).
La condotta di mobbing, inoltre, costituita da una serialità di atti tutti preordinati ad un unico fine vessatorio, sembra poter essere ricondotta, senza forzature, al concetto di “maltrattamento”. Secondo l’opinione della Suprema Corte, infatti, la condotta di “maltrattamenti” e quella di mobbing sono strettamente connesse in quanto connotate dalle medesime caratteristiche:
– la serialità dei comportamenti lesivi e offensivi;
– l’unicità degli stessi, in quanto, in entrambi i casi, la “condotta” scaturisce dall’insieme dei singoli atti;
– la finalizzazione rispetto all’effetto lesivo;
– l’intenzionalità.
Soggetto attivo, vittima e condotta, dunque, ben si adattano alla struttura delineata dall’art. 572 c.p., così come, peraltro, sostenuto anche dalla giurisprudenza maggioritaria (ex plurimis: Cass. Sez VI pen., 22.01.2001, n. 218201)
Ciò posto, non si può, tuttavia, omettere di evidenziare talune asimmetrie, di non poco rilievo.
Si ritiene, anzitutto, che la fattispecie di cui all’art. 572 c.p. possa essere applicata a quelle ipotesi di mobbing caratterizzate dalla sussistenza di un rapporto di familiarità tra la vittima e il superiore gerarchico.
Pur non dovendosi trattare di un rapporto di consanguineità o parentela in senso tecnico, tra i due soggetti deve dunque sussistere una relazione abituale e intensa, di natura, appunto, para-familiare (si veda: Cass. pen., sez. IV, 26.06.2009, n. 26594). La riconducibilità del mobbing al reato di “maltrattamenti di famigliari e conviventi” non potrebbe, pertanto, sussistere in tutti quei casi in cui, in presenza di un organigramma aziendale e lavorativo particolarmente complesso, non vi sia traccia di un rapporto stretto e intenso quale quello testé descritto, in assenza del quale non si potrebbe parlare di effettiva “sottoposizione” all’altrui autorità, per come intesa nella disposizione in esame.
In secondo luogo, diversità tra le due fattispecie di reato emergono dall’angolo visuale dell’elemento soggettivo.
Il soggetto che “maltratta”, infatti, non persegue una specifica finalità, mentre il “mobber” agisce con lo specifico fine di isolare, emarginare se non, addirittura, escludere il lavorare dall’organigramma aziendale. Da qui la diversità tra il dolo generico che caratterizza il primo reato e il dolo specifico che integra, al contrario, l’elemento psicologico del mobbing.
Stante la complessità e la tecnicità della materia, è consigliabile indirizzarsi ad un professionista esperto per avere tutti i chiarimenti e le istruzioni complementari.

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