Impresa Familiare e Comunione Tacita Familiare – Cassazione 12643 del 25 giugno 2020
Con il presente articolo, ci occupiamo dell’impresa familiare tacita e degli acquisti effettuati da una partecipante alla stessa.
Prendiamo le mosse dalla recente pronuncia della Suprema Corte (Cassazione civile, sez. II, sentenza 25 giugno 2020, n. 12643), che si occupa di impresa familiare, mettendone in evidenza le caratteristiche e le condizioni per la sua costituzione, ponendone anche in risalto le differenze come la comunione tacita familiare.
L’art. 230 bis c.c., dispone che “il familiare che presta la sua attività di lavoro nella famiglia o nell’impresa familiare ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento”.
L’ultimo comma dell’art. 230 bis c.c. precisa che la comunione tacita familiare è regolata dagli usi, purché non contrastanti con la nuova disciplina.
Si pone dunque, anzitutto, il problema della distinzione tra essa e l’impresa familiare.
Va innanzi tutto precisato che l’impresa familiare non esige la comunione di lavoro, tetto e mensa (propria della comunione tacita), caratteristica di rapporti tradizionali ormai superati od in via di superamento. Nell’impresa familiare il vincolo non è così penetrante, anche se alla base deve pur sussistere un rapporto di solidarietà familiare che la giustifichi. Ancora, ai sensi dell’art. 230 bis la nozione di «familiare» è assai ristretta, mentre essa, al contrario, non trova limiti nell’ambito della comunione tacita, alla quale potrebbero partecipare anche estranei legati alla famiglia da un vincolo di semplice convivenza (per non parlare dei conviventi more uxorio). Infine, nella comunione tacita prevale il profilo della titolarità (si parla di proprietà collettiva); nell’impresa familiare quello della gestione, cui partecipano, seppure in posizione talora assai differenziata, tutti i familiari; e muta il criterio di divisione degli utili: dalla soddisfazione dei bisogni alla correlazione con il lavoro prestato .
Ciò premesso, si può affermare come l’impresa familiare coltivatrice è una specie del più ampio genus dell’impresa familiare disciplinata dall’art. 230-bis c.c.. Alla prima sono quindi applicabili i principi relativi alla seconda in quanto compatibili; essa si configura come un organismo collettivo formato dai familiari dei consorziati, il cui fine è l’esercizio in comune dell’impresa agricola. Dalla natura collettiva dell’impresa familiare discende che obbligati in relazione al credito per gli utili, se ed in quanto esistenti, spettanti a ciascuno dei familiari che abbia prestato la propria attività lavorativa nella famiglia, sono l’impresa familiare e gli altri familiari consorziati e di tale obbligazione essi ne rispondono con i beni comuni. Ne deriva che la domanda volta alla liquidazione della quota di partecipazione agli utili dell’impresa familiare coltivatrice, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro in essa prestato, deve rivolgersi nei confronti di costoro e non invece nei riguardi degli eredi del capofamiglia defunto (Cass. 8 maggio 2013 n. 10777).
La Corte, con la pronuncia in oggetto, ha precisato che in tema di impresa familiare, non è configurabile alcuna presunzione che l’immobile acquistato da parte di un familiare partecipante, in nome proprio, durante il periodo di esistenza dell’impresa, configuri bene acquistato con gli utili dell’attività familiare, con la conseguenza che, il coniuge che affermi il diritto di comproprietà su bene immobile intestato all’altro coniuge, in forza di un regime di comunione tacita familiare – idoneo ad estendersi di diritto agli acquisti fatti da ciascun partecipante, senza bisogno di mandato degli altri, ne’ di successivo negozio di trasferimento – ha l’onere di fornire la relativa prova, tenendo conto che la suddetta comunione non può essere desunta da una mera situazione di collaborazione familiare, ma postula atti o comportamenti che evidenzino inequivocabilmente la volontà di mettere a disposizione del consorzio familiare determinati beni, nonché di porre in comune lucri, perdite ed incrementi patrimoniali.
Va, altresì, affermato il principio secondo cui il regime dei beni della comunione tacita familiare, non comporta, ove un bene sia acquistato in proprio da singolo partecipante con i proventi comuni, l’acquisto automatico da parte della collettività, bensì un obbligo di trasferimento dal singolo acquirente agli altri membri della comunione, salvo che non risulti uno specifico uso che invece consideri fatti per la comunione anche gli acquisti “nomine proprio” dei singoli partecipanti.