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La bancarotta è il reato fallimentare disciplinato dal titolo VI della Legge Fallimentare che suddivide il reato in due fattispecie con risvolti punitivi che variano a seconda della gravità del fatto commesso dal fallito. In particolare, a differenza della bancarotta semplice (ex art. 217 L.F.; caso in cui il fallito ha aggravato la situazione economica per semplice imprudenza), viene definita bancarotta fraudolenta (ex art. 216 L.F.) la frode diretta ad aggravare l’insolvenza a danno delle legittime aspettative dei creditori.

Ai sensi dell’art. 5, comma 1, L.F. “l’imprenditore che si trova in stato di insolvenza viene dichiarato fallito”. Il legislatore nel definire lo stato di insolvenza come una “manifestazione di inadempimento o altri fattori esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni” ha tenuto a evidenziare il principio cardine di non correlazione tra la consistenza patrimoniale e lo stato di insolvenza, essendo questo invece legato alla incapacità finanziaria dell’imprenditore.

Si può affermare che la bancarotta è un reato di pericolo in quanto offende il bene giuridico rappresentato dalla salvaguardia della consistenza delle garanzie patrimoniali per i creditori fallimentari e altresì dalla tutela della correttezza, efficienza e speditezza della relativa procedura concorsuale.

L’imprenditore è tenuto ad astenersi da condotte tali da esporre a possibile pregiudizio le ragioni dei creditori, non nel senso di dover evitare i comportamenti che abbiano in sé margini di potenziale perdita economica, ma quelli che comportino diminuzione patrimoniale senza trovare giustificazione nella fisiologica gestione dell’impresa.

In particolare, la restituzione dei finanziamenti in precedenza concessi può integrare il reato di bancarotta se effettuata in periodo di dissesto della società.

Nello specifico, tra le plurime forme di finanziamento che l’ordinamento prevede in favore delle società vi è quello proveniente dai soci, che ha visto un sostanziale rinnovamento a seguito della riforma del diritto societario del 2003.

In forza di tale intervento legislativo, invero, i finanziamenti dei soci, che nella “forma” rappresentano un debito per l’impresa, sono nella “sostanza” completamente assimilati a conferimenti. Una delle principali conseguenze di siffatta equiparazione è che, se entro un anno dal momento in cui tale finanziamento è stato rimborsato, dalla società al socio, la società fallisce, tale rimborso è da considerarsi illegittimo e, come tale, dovrà essere restituito alla società.

In un momento di insolvenza della società, infatti, non si avrebbe certo la restituzione dei conferimenti ai soci e, allo stesso modo, non andrebbe dunque effettuata la restituzione del finanziamento ai soci.

Con la dichiarazione di fallimento il socio/creditore da finanziamento della società diventa null’altro che uno dei suoi tanti creditori con i quali concorre sull’attivo, secondo il principio della par condicio creditorum.

La restituzione del credito al socio andrebbe dunque contro l’ordine di soddisfazione dei creditori stabilito dalle norme sul procedimento concorsuale, avvantaggiandone indebitamente alcuni a scapito degli altri.

Con riferimento alla possibile rilevanza penale della condotta, la giurisprudenza è ormai costante nell’affermare che le restituzioni – effettuate in periodo di insolvenza – ai soci, dei finanziamenti concessi alla società, che costituiscono crediti liquidi ed esigibili, possono integrare il delitto di bancarotta preferenziale, giacché non sussistono motivi che giustifichino, in termini di interesse societario, la soddisfazione, prima degli altri creditori, del socio, il quale, a differenza della restante massa creditoria, non ha alcun interesse ad avanzare, in caso di inadempimento, istanza di fallimento verso la società.

La fattispecie di bancarotta preferenziale è disciplinata dal terzo comma dell’art. 216 l. fall. che stabilisce che: “È punito con la reclusione da uno a cinque anni il fallito, che, prima o durante la procedura fallimentare, a scopo di favorire, a danno dei creditori, taluno di essi, esegue pagamenti o simula titoli di prelazione”.

L’unica ragione di una siffatta restituzione al socio non può che essere, quindi, il volontario e specifico perseguimento dell’interesse del creditore privilegiato, a danno della restante massa creditoria (in tal senso, anche recentemente, Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 26 gennaio 2015, n. 3553). Da qui il carattere illecito e penalmente rilevante di tale comportamento.

Ben più grave è, però, la situazione del socio creditore che si identifichi con lo stesso amministratore della società, in quanto la condotta di quest’ultimo, volta alla restituzione, in periodo di dissesto, di finanziamenti in precedenza concessi può giungere persino ad integrare l’ipotesi di bancarotta per distrazione (e non quella di bancarotta preferenziale) punita più severamente dall’ordinamento (reclusione da tre a dieci anni).

Al riguardo, il giudice di legittimità ha rilevato che “nel caso in cui il creditore si identifichi nello stesso soggetto che assume le vesti di amministratore della società, contestualmente responsabile del depauperamento della decozione e delle risorse della stessa, un atto di disposizione patrimoniale che, in costanza dello stato di insolvenza, sia diretto in suo stesso favore assume significato ben diverso e più grave rispetto alla mera volontà di privilegiare un creditore in posizione paritaria rispetto a tutti gli altri” (Cass. pen, sez. V, 6 novembre 2012, n. 42710).

Stante la maggior gravità, tale condotta è qualificabile come fatto distrattivo e non come bancarotta preferenziale.

Il giudice di legittimità ha ulteriormente specificato che, una volta provato che una somma di denaro acquisita da parte della società fallita (e non v’è dubbio che il finanziamento operato dal socio costituisca una ipotesi di acquisizione di beni del tutto fisiologica) non sia più rinvenibile, deve essere proprio l’amministratore a fornire la prova della corretta destinazione della somma stessa: in tale contesto, anche la restituzione di un’anticipazione in un chiaro contesto di dissesto della società ben può costituire condotta rilevante ai fini di un addebito di bancarotta per distrazione, stante la correlata lesione al patrimonio sociale posto a garanzia dei creditori.

Questo principio non può che confermare la rilevanza penale delle condotte addebitate al creditore che si identifichi nello stesso soggetto che assume le vesti di amministratore della società, contestualmente responsabile dello stato di insolvenza in cui versa la stessa, il quale, ben consapevole delle difficoltà in cui versa la compagine sociale, fa in modo che le somme entrate nel patrimonio di quest’ultima, grazie ai finanziamenti dei soci, vengano rimborsate piuttosto che rimanere a garanzia delle ragioni della massa dei creditori.

Invero, si ritiene che le medesime considerazioni possano essere svolte con riferimento ai rapporti societari infragruppo.

Peraltro, allo scopo di preservare i creditori delle società controllate, evitando che il rischio imprenditoriale sia trasferito su di loro, l’art. 2497 quinquies c.c. richiama espressamente la disposizione prevista dall’art. 2467 c.c. relativamente ai finanziamenti eseguiti a favore della società da parte di chi esercita attività di direzione e coordinamento nei suoi confronti o da altri soggetti ad essa sottoposti.

Ne deriva che, se la ratio delle due disposizioni è la medesima e se la disciplina sul finanziamento dei soci trova nondimeno applicazione nell’ambito dei prestiti infragruppo, allora appare ragionevole concludere che nella ipotesi di rimborso di un finanziamento infragruppo, in un momento di chiara situazione di insolvenza della società “rimborsante”, le conseguenze, in punto di rilevanza penale della condotta, non possono che essere le stesse già rappresentate.

Stante la complessità e la tecnicità della materia, è consigliabile indirizzarsi ad un professionista esperto per avere tutti i chiarimenti e le istruzioni complementari.