La Cassazione si è di recente espressa sulle modifiche apportate alla L. 22 aprile 2005, n. 69 (“Disposizioni per conformare il diritto interno alla decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri”) da parte della L. del 4 ottobre 2019, n. 117 (“Delega al Governo per il recepimento delle direttive europee e l’attuazione di altri atti dell’Unione europea – Legge di delegazione europea 2018”), entrata in vigore il 2 novembre 2019.
Tale intervento riformatore ha, in particolare, coinvolto l’art. 18, Legge 69/2005 (“Motivi di rifiuto obbligatorio della consegna”) ed introdotto il nuovo art. 18-bis (“Motivi di rifiuto facoltativo della consegna”).
La conseguenza di maggior rilievo, riveniente dalle modifiche di cui sopra, è sicuramente lo “spostamento” del requisito dello stabile radicamento in Italia del soggetto “richiesto” – originariamente richiamato nella lett. r) dell’art. 18 – nella lettera c) del nuovo art. 18-bis, ossia in quella disposizione che, diversamente dall’art. 18, richiama le ipotesi di rifiuto della consegna meramente facoltative.
La Corte d’Appello, quindi, nell’ipotesi in cui venisse riscontrato lo stabile radicamento in Italia del soggetto interessato dal MAE, non è, d’ora in avanti, più obbligata a rifiutare la richiesta di consegna, ma sussiste, in capo ai giudicanti, solo una mera facoltà in tal senso. Il tutto, resta inteso, a condizione che disponga che la pena venga eseguita in Italia conformemente al diritto interno.
L’attuale art. 18-bis lett. c), infatti, prevede che la Corte d’Appello può rifiutare la consegna “se il mandato d’arresto europeo è stato emesso ai fini della esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza privative della libertà personale, qualora la persona ricercata sia cittadino italiano o cittadino di altro Stato membro dell’Unione europea, che legittimamente ed effettivamente abbia residenza o dimora nel territorio italiano, sempre che la corte di appello disponga che tale pena o misura di sicurezza sia eseguita in Italia conformemente al suo diritto interno».
La Suprema Corte, nella sentenza in commento, chiarisce come – oggi ancor più che in precedenza – non sia riconosciuto in capo al soggetto “richiesto” un diritto alla scelta dello Stato in cui espiare la pena o la misura di sicurezza.
Il potere di rifiuto demandato alla Corte di appello, prosegue la Suprema Corte, deve in ogni caso essere ancorato ad una puntuale verifica della “meritevolezza” della richiesta fatta dall’interessato a che la pena venga eseguita in Italia.
In ordine alla “significato” da attribuirsi al requisito dello stabile radicamento, sono fatti salvi gli indici in precedenza elaborati dalla giurisprudenza, quando tale requisito rappresentava ancora motivo di rifiuto obbligatorio di consegna.
Indici, quali: “la legalità della sua (del cittadino dello Stato membro) presenza in Italia, l’apprezzabile continuità temporale e stabilità della stessa, la distanza temporale tra quest’ultima e la commissione del reato e la condanna conseguita all’estero, la fissazione in Italia della sede principale, anche se non esclusiva, e consolidata degli interessi lavorativi, familiari ed affettivi, il pagamento eventuale di oneri contributivi e fiscali”.
A prescindere dalla collocazione del requisito che ne occupa all’interno della Legge 69/2005, ciò che occorre tenere a mente è la ratio che giustifica l’inserimento del radicamento sul suolo italiano tra i motivi, obbligatori o facoltativi, di rifiuto della consegna.
La valorizzazione della residenza o la dimora nello Stato italiano, infatti, mira a garantire che la pena, o la misura di sicurezza, vengano eseguita nello Stato in cui il soggetto “richiesto” ha sviluppato significativi interessi sociali, economici ed affettivi.
Il presente motivo di rifiuto, in altri termini, vuole assicurare che, durante l’esecuzione della pena, siano salvaguardate le relazioni instaurate dal detenuto, al fine di promuovere il recupero e la risocializzazione del medesimo.
Sarà, pertanto, necessario che il presupposto normativo della residenza o dimora nel territorio italiano sia “pur sempre soggetto ad una verifica sostanziale, e non formale, dell’esistenza, per il cittadino di un altro Stato membro dell’UE, dei requisiti di collegamento con il territorio del nostro Paese, attraverso l’accertamento di uno o più indici concretamente sintomatici di un reale e non estemporaneo radicamento dell’interessato con lo Stato italiano, nel quale ha inteso stabilire la sede principale dei propri interessi affettivi ed economici, in maniera tale da assimilarne la posizione a quella del cittadino italiano”.
Conclusivamente sul punto, se è vero che, ad oggi, il radicamento sul suolo nazionale non obbliga più l’autorità italiana a rifiutare la consegna, è altrettanto vero che la valutazione di tale requisito deve trascendere gli aspetti meramente formalistici, andando a appurare la sussistenza e l’intensità del legame eventualmente intercorrente tra il soggetto “richiesto” e lo Stato italiano, avendo sempre a mente l’inderogabile finalità rieducativa della pena, al perseguimento della quale mira, peraltro, la stessa causa di rifiuto in oggetto.
– Cass. Sez. VI, sent. 3 febbraio 2020, n. 4534 –