Le sentenze fanno riferimento ai requisiti motivazionali indefettibili che le ordinanze applicative delle misure cautelari personali devono, necessariamente, soddisfare alla luce della riforma del 2015 (Legge 16 aprile 2015, n. 47).
Tale intervento normativo, giova ricordarlo, ha modificato il testo dell’art. 292, comma 2, lett. c), c.p.p., il quale, oggi, prevede che il giudicante nell’ordinanza con cui dispone la misura cautelare indichi, a pena di nullità rilevabile anche d’ufficio, “l’esposizione e l‘autonoma valutazione delle specifiche esigenze cautelari e degli indizi che giustificano in concreto la misura disposta, con l’indicazione degli elementi di fatto da cui sono desunti e dei motivi per i quali essi assumono rilevanza, tenuto conto anche del tempo trascorso dalla commissione del reato”.
I giudici di legittimità si sono, in più occasioni, pronunciati in ordine al significato da attribuire all’espressione “autonoma valutazione”, riferita alle esigenze cautelari e ai gravi indizi di colpevolezza.
Secondo il parere della Suprema Corte, la predetta valutazione può ritenersi “autonoma” esclusivamente laddove il giudice, nell’impianto motivazionale dell’ordinanza genetica, abbia dato espressamente atto degli elementi indiziari ritenuti rilevanti e sia, perciò, possibile ricostruire, mediante la mera compulsazione del provvedimento applicativo, l’iter logico-argomentativo che giustifica la misura disposta.
Di contro, dovranno essere tacciate di nullità, alla stregua del nuovo art. 292 c.p.p., le ordinanze cautelari che si limitino a accogliere acriticamente le richieste del Pubblico Ministero ovvero a recepire pedissequamente le risultanze investigative da quest’ultimo riportate nella relativa istanza, ossia quei provvedimenti che non risultino rivenienti – e non diano, quindi, atto – da un’analisi critica del materiale investigativo portato alla attenzione del giudicante.
La Suprema Corte, tuttavia, puntualizza come il carattere autonomo della valutazione del compendio indiziario non può ritenersi automaticamente escluso nei casi di motivazione cd. “per relationem”. Trattasi delle ipotesi in cui il provvedimento genetico rinvia, sotto il profilo delle motivazioni in fatto ed in diritto che giustificano la misura, a quanto rappresentato nella richiesta di applicazione.
La Suprema Corte, infatti, puntualizza come non sia necessario che il giudicante si discosti dagli elementi oggettivi emersi nel corso delle indagini preliminari ed evidenziati dal Pubblico Ministero, procedendo ad una riscrittura originale degli stessi.
L’onere motivazionale di cui all’art. 292, comma 1, lett. c), c.p.p., invero, potrà in ogni caso ritenersi adempiuto anche laddove l’ordinanza applicativa richiami in toto le argomentazioni dell’organo inquirente (motivazione cd. “per relationem”, appunto), a patto che, però, dall’impianto motivazionale emerga, in ogni caso, “un effettivo vaglio degli elementi di fatto ritenuti decisivi, senza il ricorso a formule stereotipate, spiegandone la rilevanza ai fini dell’affermazione dei gravi indizi di colpevolezza e delle esigenze cautelari nel caso concreto” (Cass. Sez. II, sent. 20 gennaio 2020, n. 1990; Cass. Sez. II, sent. 26 febbraio 2019, n. 8480).
I giudici di legittimità sono, persino, arrivati ad affermare la sufficienza, in termini di “autonomia” della valutazione dei gravi indizi di colpevolezza e delle esigenze cautelari, di una motivazione redatta con la modalità cd. “copia incolla”, ossia la legittimità del provvedimento cautelare cha accolta la richiesta “negli stessi, identici termini, sia meramente grafico – testuali che propriamente argomentativi, di quelli enunciati dal Pubblico ministero nella richiesta stessa” (Cass., Sez. VI, sent. 06 dicembre 2016, n. 51936).
Siffatta impostazione ermeneutica trova applicazione, tuttavia, solo in quei casi in cui possa desumersi aliunde l’effettivo espletamento, da parte del giudicante, del “vaglio”, critico ed autonomo, imposto dalla legge. È questo il caso di una richiesta di misura cautelare soggettivamente e/o oggettivamente cumulativa, con riferimento alla quale il giudice adito abbia disposto la misura esclusivamente nei confronti di alcuni soggetti ovvero relativamente ad alcune contestazioni.
In tale ipotesi, invero, la Cassazione ha ritenuto che – nonostante la redazione dell’ordinanza genetica mediante la tecnica cd. “copia-incolla” – “il diniego opposto dal Giudice che ha emesso la misura […] segnala univocamente, infatti, che la richiesta stessa, nell’intero complesso delle sue articolazioni interne, è stata effettivamente e materialmente esaminata e valutata in senso critico e non meramente adesivo, così che l’accoglimento della stessa per altri indagati o per altre imputazioni cautelari […] non può essere stigmatizzata in termini di mancato esercizio di quel dovere critico che la nozione di autonoma valutazione sottintende e che il rigetto di alcune richieste segnala come sicuramente esercitato” (Cass., Sez. VI, sent. 06 dicembre 2016, n. 51936).
La Suprema Corte, in ultimo, chiarisce il regime applicabile al provvedimento applicativo e le conseguenze, nel caso in cui venga contravvenuto l’obbligo valutativo di cui all’art. 292, comma 2, lett. c), c.p.p.
Affermano, anzitutto, i giudici di legittimità come, siffatta lacuna, “determini una violazione di legge processuale del provvedimento, che legittima la Corte di cassazione ad un accesso diretto al provvedimento impugnato, divenendo, essa, in siffatti limiti, giudice del fatto” (Cass. Sez. VI, sent. 30 novembre 2018, n. 53940).
La Cassazione ha, inoltre, delimitato l’ambito di indagine del giudicante che sia chiamato a valutare la sussistenza del vizio da mancanza di autonoma valutazione.
Ciò che, in particolare, deve essere oggetto di attenzione non è il “grado di sufficienza della motivazione dell’ordinanza cautelare”, essendo, viceversa, il giudice adito tenuto a riscontrare se il giudice “emittente” si sia prodotto, nella adozione della misura cautelare, in “una mera adesione acritica alle scelte dell’accusa”.
In siffatta eventualità, infatti, ci si troverebbe in presenza di “di un’apparenza di motivazione in quanto non indicativa di uno specifico apprezzamento del materiale indiziario” e, dunque, di un provvedimento cautelare nullo in forza dell’art. 292, comma 2, lett. c), c.p.p. (Cass. Sez. VI, sent. 30 novembre 2018, n. 53940; e conformi: Cass., Sez. VI, sent. 4 novembre 2015, n. 44606; Cass., Sez. VI, sent. 14 aprile 2016, n. 26050).
È necessario, quindi, distinguere le diverse censure che possono essere mosse nei confronti dell’ordinanza genetica: il vizio di nullità da mancanza di autonoma valutazione (di natura, come anzidetto, processuale) e l’illogicità delle argomentazioni poste, dal giudice della misura, a supporto del provvedimento applicativo.
Ne deriva, quindi, che, con riferimento alle prima delle summenzionate censure – che rileva in questa sede – non viene in rilievo “la congruità, l’adeguatezza e la sufficienza degli argomenti utilizzati dal G.i.p. nell’ordinanza genetica per sostenere l’adozione della misura cautelare in punto di gravi indizi di colpevolezza e delle esigenze cautelari”, ma dovrà essere valutato dal giudice adito, esclusivamente, il profilo relativo all’esistenza stessa della motivazione. La nullità de qua, invero, secondo il costante orientamento giurisprudenziale, rientra nella più ampia figura della violazione di legge per mancanza assoluta di motivazione ed è, dunque, in siffatti termini che la sussistenza dell’indicato vizio deve essere valutata (Cass. Sez. VI, sent. 30 novembre 2018, n. 53940).
La Suprema Corte ha, pertanto, conclusivamente affermato come “il malgoverno del dato di prova contenuto nell’ordinanza di prima applicazione di misura cautelare non vale a denunciarne il vizio da mancanza di autonoma valutazione” (Cass. Sez. VI, sent. 30 novembre 2018, n. 53940).
– Cass. Sez. II, sent. 20 gennaio 2020, n. 1990 –
– Cass. Sez. II, sent. 26 febbraio 2019, n. 8480 –
– Cass. Sez. VI, sent. 29 maggio 2018, n. 24183 –
– Cass. Sez. VI, sent. 30 novembre 2018, n. 53940 –
– Cass. Sez. II, sent. 6 dicembre 2016, n. 51936 –
– Cass. Sez. II, sent. 10 febbraio 2016, n. 5497 –
– Cass. Sez. III, sent. 12 gennaio 2016, n. 840 –