La tematica in oggetto rappresenta, ad oggi, uno dei topoi maggiormente rilevanti ed “inesplorati” dell’intero panorama 231.
Trattasi del principio – introdotto da ultimo dal giudice di legittimità – della cd. internazionalizzazione della responsabilità amministrativa degli enti, alla stregua del quale non assume alcuna rilevanza, ai fini dell’accertamento della responsabilità ex d.lgs. 231/2001, la “nazionalità” della persona giuridica interessata, ossia il luogo ove si colloca la sede legale e/o amministrativa della stessa.
La questione che ne occupa attiene, in particolare, a quelle ipotesi in cui l’ente, nell’interesse o a vantaggio del quale sia stato realizzato un reato sul suolo italiano, abbia sede all’estero.
E’ dibattuto se, in siffatte ipotesi, la società possa essere chiamata a rispondere dell’illecito amministrativo dianzi alla magistratura italiana e sulla base dell’ordinamento del locus commissi delicti.
A fungere da spunto per le riflessioni che seguiranno è stato un recente arresto della Suprema Corte in cui è stato affermato il seguente principio di diritto: “la persona giuridica è chiamata a rispondere dell’illecito amministrativo derivante da un reato-presupposto per il quale sussista la giurisdizione nazionale commesso dai propri legali rappresentati o soggetti sottoposto all’altrui direzione o vigilanza, in quanto l’ente è soggetto all’obbligo di osservare la legge italiano e, in particolare, quella penale, a prescindere dalla sua nazionalità o dal luogo ove esso abbia la propria sede legale ed indipendentemente dall’esistenza o meno nel Paese di appartenenza di norme che disciplinino in modo analogo la medesima materia anche con riguardo alla predisposizione e alla efficace attuazione di modelli di organizzazione e di gestioni atti ad impedire la commissione di reato fonte di responsabilità amministrativa dell’ente stesso” (cfr. pag. 17, punto 6.10, Cass. Pen., sent. 7 aprile 2020, n. 11626).
La suddetta impostazione ermeneutica, peraltro, si colloca nell’ambito di un quadro giurisprudenziale caratterizzato, sì, da pronunce di portata innovativa, ma, nel complesso, alquanto “scarno”.
Al riguardo, occorre anzitutto richiamare le pronunce emesse nell’ambito del giudizio relativo alla “strage di Viareggio”, incidente ferroviario, tristemente noto, occorso nell’estate del 2009.
In quella occasione, infatti, i giudici di prime cure [nota 1] si sono prodotti in una approfondita ricostruzione degli orientamenti, dottrinali e giurisprudenziali, sviluppatisi attorno alla questione de qua, rilevando, sul punto, due indirizzi interpretativi di segno diametralmente opposto.
Il Tribunale di Lucca [nota 2] ha richiamato un orientamento, di natura dottrinale, che esclude l’applicabilità della disciplina nazionale in materia di responsabilità amministrativa derivante da reato ad enti che svolgano all’estero la loro principale attività amministrativa e gestionale, ovvero nel caso in cui la lacuna organizzativa che abbia dato adito all’illecito si sia consumata al di fuori del territorio nazionale.
E’ di palmare evidenza come un simile approccio miri a valorizzare il carattere autonomo della responsabilità amministrativa – sancito, come noto, dall’art. 8, d.lgs. 231/2001 [nota 3] – sul presupposto che, sebbene la commissione del reato ne costituisca la condizione indefettibile, tale responsabilità rimane “fondata su profili di tipicità soggettiva”, ossia “integrata da condotte inottemperanti ad un dovere di diligenza, eventualmente realizzata dove l’ente ha la sua sede” (cfr. pag. 977, Trib. Lucca, sent. 31 luglio 2017, n. 222).
L’illecito ascritto all’ente, pertanto, avrebbe una natura autonoma e complessa, sostanziandosi, secondo la dottrina, in una fattispecie di tipo omissivo integrata dalla colpa per omesso controllo, da parte della società, della condotta della persona fisica.
L’illecito si comporrebbe, dunque, in prima battuta, dalla commissione del reato-presupposto da uno dei soggetti di cui all’art. 5, d.lgs. 231/2001 e, in secondo luogo, da profili di tipicità soggettiva integrati da condotte inottemperanti poste in essere dall’ente (i.e. la cd. colpa di organizzazione), da localizzarsi ove quest’ultimo ha la sede.
Ed è proprio a tali ultimi comportamenti inadempienti che la dottrina attribuisce “un ruolo di primo piano nella dinamica dell’illecito dell’ente”, individuando, quale criterio discretivo per la identificazione della giurisdizione, il luogo ove si è verificata la “omissione organizzativa e gestionale, espressione di una vera e propria colpa di organizzazione” (cfr. pag. 978, Trib. Lucca, sent. 31 luglio 2017, n. 222).
Secondo tale approccio, viene, in altri termini, rigettata ogni ricostruzione dell’addebito all’ente in termini oggettivi, qualificando la commissione del reato-presupposto quale mero frammento della vicenda ed individuando la sostanza del rimprovero da muoversi nei confronti dell’ente nella cd. colpa di organizzazione.
Ne deriva, dunque, che nella misura in cui la lacuna organizzativa – e, quindi, la cd. colpa di organizzazione – sia da collocarsi all’estero, l’ente non potrà essere chiamato a rispondere, sulla base dell’ordinamento nazionale, del reato-presupposto commesso in Italia, non trovando, per l’effetto, applicazione la disciplina ex d.lgs. 231/2001.
A sostegno della propria tesi, peraltro, la dottrina prevalente richiama, ulteriormente, la previsione di cui all’art. 34, d.lgs. 231/2001: “per il procedimento relativo agli illeciti amministrativi dipendenti da reato, si osservano le norme di questo capo nonché, in quanto compatibili, le disposizioni del codice di procedura penale e del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271”.
Dal rinvio operato dalla suddetta disposizione, esclusivamente, al codice di rito e alle sue norme di attuazione e coordinamento, si dovrebbe desumere la non applicabilità degli articoli 3 e 6 del codice penale (non richiamato espressamente) che, come noto, sanciscono i principi di obbligatorietà e territorialità della legge penale, in forza dei quali chiunque si trovi sul suolo italiano, a prescindere dalla sua nazionalità, deve osservare la relativa legislazione e, nel caso in cui commetta un reato, sarà giudicato in forza dell’ordinamento nazionale.
In mancanza, quindi, di specifiche disposizioni di legge, sempre secondo questo primo orientamento, “non è possibile assoggettare enti di diritto straniero alle leggi italiane, vieppiù se l’ordinamento nel paese di appartenenza del soggetto collettivo non disciplina analogamente la materia, con particolare riferimento all’obbligo di adottare precisi modelli organizzativi e di controllo delineati dalla legge nostrana” (cfr. pag. 978, Trib. Lucca, sent. 31 luglio 2017, n. 222).
A tale indirizzo si contrappone, tuttavia, un opposto orientamento – di matrice pressoché giurisprudenziale [nota 4] – condiviso, tanto dai giudici di merito, quanto dalla Suprema Corte nell’ambito della sentenza richiamata in apertura (Cass. Pen., Sez. VI, sent. 7 aprile 2020, n. 11626).
La prima pronuncia che ha “aperto le porte” alla cd. internazionalizzazione della responsabilità ex d.lgs. 231/2001 è del Giudice per le Indagini Preliminari di Milano [nota 5] che ha applicato la misura cautelare del divieto a contrattare con la pubblica amministrazione ad una società tedesca, indagata per un reato-presupposto commesso in territorio italiano, nonostante l’ordinamento tedesco non preveda una normativa assimilabile in materia di illecito amministrativo derivante da reato.
La magistratura nazionale risulta costante nel ritenere applicabile la disciplina 231 anche ad imprese straniere, a nulla rilevando la presenza, sul suolo italiano, di una loro sede secondaria o di uno stabilimento e, dunque, a prescindere dal luogo in cui si sia verificata la lacuna organizzativa.
Siffatta linea interpretativa, relega, evidentemente, in secondo piano quell’elemento (i.e. il luogo ove si è “consumata” la lacuna da cui è derivata la commissione del reato-presupposto) che la prima impostazione, viceversa, qualificava come dirimente sul punto.
La giurisprudenza pressoché univoca prende le mosse dall’assunto secondo il quale “in virtù del principio di imperatività della norma penale, sancito dall’art. 3 del codice, il semplice fatto di operare in Italia comporta l’obbligo di rispettarne la legge” (cfr. pag. 978, Trib. Lucca, sent. 31 luglio 2017, n. 222).
In altri termini, “dal compimento di tali attività discende […] l’ineluttabile obbligo di rispettare le norme vigenti in Italia” e, dunque, “laddove un ente “straniero” decida di operare nel nostro Paese, direttamente o indirettamente, non potrà in alcun modo sottarsi alla legislazione penale italiana” (cfr. pag. 979, Trib. Lucca, sent. 31 luglio 2017, n. 222).
A supporto di tale ermeneutica, il Tribunale di Lucca passa in rassegna alcune argomentazioni, rivenienti dalla maggioritaria giurisprudenza in subiecta materia, richiamate anche dalla Suprema Corte nell’ambito della sentenza n. 11626/2020.
Ad iniziare, il dettato dell’art. 1, comma 2, d.lgs. 231/2001 [nota 6], il quale annovera tra i soggetti a cui è applicabile la relativa disciplina gli “enti forniti di personalità giuridica e le società e associazioni anche prive di personalità giuridica”, senza fare alcuna ulteriore precisazione con riguardo al luogo in cui tali entità abbiano stabilito la propria sede legale [nota 7].
Stando al tenore letterale della disposizione testé richiamata, pertanto, la “nazionalità”, estera o italiana, dell’ente non assume, e non può assumere, alcuna rilevanza in punto applicabilità della normativa 231.
Viene, poi, in rilievo l’art. 4, d.lgs. 231/2001 [nota 8] che disciplina l’ipotesi opposta a quella che ne occupa e cioè il caso in cui il reato-presupposto, commesso a vantaggio o nell’interesse di un ente “italiano”, sia stato realizzato all’estero.
Con riferimento a tali eventualità, la regula iuris è l’assoggettamento dell’ente alla giurisdizione nazionale, fatto salvo, esclusivamente, il caso in cui nei confronti di quest’ultimo non abbia già proceduto l’autorità giudiziaria dello Stato in cui è stato commesso il fatto (i.e. il reato-presupposto).
Con il logico corollario, secondo i giudici di merito e di legittimità, che se la disciplina nazionale in materia va applicata – come sancito dal predetto art. 4, d.lgs. 231/2001 – agli enti italiani nell’interesse dei quali sia stato commesso un reato all’estero, “a maggior ragione essa [la disciplina, n.d.r.] andrà applicata nel caso in cui tale reato sia stato commesso in Italia” (cfr. pag. 980, Trib. Lucca, sent. 31 luglio 2017, n. 222).
L’art. 4 citato, peraltro, realizza una piena e ragionevole equiparazione tra la posizione dell’imputato persona fisica che ponga in essere un reato all’estero e quella dell’ente in ipotesi responsabile ex d.lgs. 231/2001.
Ed ancora.
Il Tribunale di Lucca e il giudice di legittimità, richiamano poi, ad ulteriore supporto del proprio orientamento, l’art. 36, d.lgs. 231/2001 [nota 9], che attribuisce la competenza ad accertare la responsabilità amministrativa dell’ente al giudice penale incaricato di conoscere i reati presupposto della stessa, “così che la competenza per l’accertamento dell’illecito [amministrativo, n.d.r.] si radica nel luogo di commissione del reato presupposto” (cfr. pag. 980, Trib. Lucca, sent. 31 luglio 2017, n. 222).
La Suprema Corte del 2020, peraltro, affianca, alla predetta disposizione normativa, l’38, d.lgs. 231/2001 [nota 10], che impone la riunione dei diversi procedimenti in ipotesi incardinati davanti a diversi giudicanti per l’accertamento delle due responsabilità, amministrativa e penale.
Tali previsioni rispondono, chiaramente, alla medesima ratio, ossia la necessità che la vicenda criminosa – per quanto attiene, tanto alla penale responsabilità degli autori materiali del reato, quanto alle conseguenze di natura amministrativa che possono derivarne in capo all’ente – sia trattata nell’ambito del medesimo procedimento, esprimendo il Legislatore “un chiaro favore verso il simultaneus processus” (cfr. pag. 14, punto 6.2, Cass. Pen., sent. 7 aprile 2020, n. 11626).
Del resto, il fatto che gli accertamenti relativi alle due responsabilità, penale e amministrativa, debbano essere oggetto del medesimo procedimento, incardinato davanti al giudice del luogo dove è stato commesso il reato, è confermato anche dal Giudice delle Leggi il quale – chiamato a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale, proprio, dell’art. 36, d.lgs. 231/2001, con riferimento all’art. 25, comma 1, Cost. [nota 11] – ha rilevato come “la scelta deliberata di unificare la competenza per territorio, sia per l’accertamento del reato presupposto commesso dagli apicali, sia per l’illecito amministrativo consequenziale, corrispondendo a finalità di unitarietà e complementarietà dell’accertamento di un simultaneus processus della fattispecie complessa in questione mira, da un lato, ad evitare contrasti di accertamenti con inammissibile artificiosa scomposizione della medesima, dall’altro, a far prevalere […] il luogo del commesso reato ascritto alla persona fisica, ossia al soggetto apicale […] per evidenti ragioni d opportunità e soprattutto di garanzia del giudice naturale”.
Il Tribunale di Lucca, inoltre, ha confutato le argomentazioni sviluppate in dottrina con riferimento alla portata dell’art. 34, d.lgs. 231/2001, il quale, come anzidetto, secondo tale interpretazione, non rinviando espressamente al codice penale, escluderebbe l’applicabilità, in materia di responsabilità amministrativa degli enti, dei principi di obbligatorietà e territorialità della legge penale (artt. 3 e 6 c.p.).
Se non fosse che, come correttamente rilevato dai giudici di merito, così opinando si “omette di considerare che, proprio tale norma, rimandando alle norme del codice di procedura penale, rinvia anche all’art. 1, che sancisce il principio generale della giurisdizione del giudice penale” (cfr. pag. 981, Trib. Lucca, sent. 31 luglio 2017, n. 222).
A ben vedere, pertanto, il citato art. 34, lungi dal contrastare la cd. internazionalità della responsabilità amministrativa, ne rappresenta un ulteriore fondamento normativo.
La Cassazione del 2020 non ha potuto non rilevare come l’opposto approccio ermeneutico si ponga in contrasto con i principi di obbligatorietà e territorialità della legge penale sanciti dagli artt. 3 [nota 12] e 6 [nota 13] c.p.
Come noto, la persona fisica, a prescindere dalla sua nazionalità, che si trovi nel territorio italiano, è sottoposta alla legge nazionale, anche e soprattutto con riferimento alle disposizioni di diritto penale.
Conseguentemente, chiunque ponga in essere un fatto integrante gli estremi di una fattispecie criminosa “nel territorio dello stato”, sarà chiamato a risponderne davanti alla magistratura italiana e in base a quanto disposto dall’ordinamento italiano e ciò, ancora una volta, a prescindere dalla nazionalità del soggetto interessato. Da ciò derivando, pertanto, che l’unico limite che incontra l’applicabilità della legge penale è quello nazionale, con l’ovvia conseguenza della assoluta irrilevanza della nazionalità dell’individuo destinatario della legge medesima.
L’art. 6, comma 2, c.p., inoltre, identifica puntualmente i presupposti per poter considerare un reato “commesso sul suolo italiano” e, dunque, i casi in cui l’accertamento del fatto e della penale responsabilità del relativo autore è, inderogabilmente, presidio del giudice nazionale. Trattasi dei casi in cui si collocano in Italia:
- l’azione o l’omissione, che integra l’illecito, anche nel caso in cui la stessa sia stata posta in essere solo parzialmente sul suolo nazionale, ovvero
- l’evento, dannoso o pericoloso, che è la conseguenza dell’azione od omissione.
Orbene, se la pretesa punitiva deve essere riconosciuta al giudice nazionale nella ipotesi in cui anche solo una parte della condotta criminosa sia stata realizzata in Italia, “a maggior ragione”, per riprendere l’espressione della Suprema Corte, “allorché sia stato commesso in Italia (o qui debba ritenersi commesso) il reato-presupposto, componente la struttura complessa dell’illecito amministrativo” (cfr. pag. 15, punto 6.4, Cass. Pen., sent. 7 aprile 2020, n. 11626). L’offesa al bene giuridico tutelato dalla fattispecie criminosa, invero, sarebbe in tal caso da localizzarsi nel territorio italiano, con la conseguenza che non potrà essere sottratta alle relative autorità la giurisdizione e la competenza a conoscere l’illecito. Ciò a prescindere dalla nazionalità dell’autore del reato (cfr. artt. 3 e 6 c.p.) o dell’ente eventualmente responsabile ex d.lgs. 231/2001.
Diversamente opinando si darebbe adito ad un ingiustificato divario tra il trattamento riservato al soggetto attivo, persona fisica, che, come anzidetto, sarebbe inevitabilmente sottoposto alla legge e alla giurisdizione italiana, e la persona giuridica la quale, viceversa, ove “straniera”, potrebbe sottrarsi agli accertamenti da parte della magistratura nazionale.
Al contrario, per riprendere le parole del Tribunale di Lucca, “locus e tempus commissi delicti della persona giuridica non possono che coincidere con quelli della persona fisica” (cfr. pag. 981, Trib. Lucca, sent. 31 luglio 2017, n. 222)
Il giudice di legittimità ha concluso sul punto attestando come, ai fini del riconoscimento della responsabilità amministrativa dell’ente, sia “del tutto irrilevante la circostanza che il centro decisionale si trovi all’estero e che la lacuna organizzativa si sia realizzata al di fuori dei confini nazionali”, coerentemente con il fatto che, alla stregua dell’ordinamento italiano, “è del tutto indifferente che un reato sia commesso da un cittadino straniero residente all’estero o che la programmazione del delitto sia avvenuta oltre confine”(cfr. pag. 15, punto 6.6, Cass. Pen., sent. 7 aprile 2020, n. 11626).
Di conseguenza, “la qualificazione di un fatto dell’ente come avente natura territoriale o extraterritoriale sarà determinata in toto dal luogo di radicamento della condotta individuale, vale a dire da quello del reato presupposto dell’autore persona fisica” (cfr. pag. 982, Trib. Lucca, sent. 31 luglio 2017, n. 222).
Rivolgendo, poi, l’attenzione a disposizioni normative estranee al d.lgs. 231/2001, i giudici hanno rinviato all’art. 97-bis, comma 5, d.lgs. 385/1993 (il cd. T.U.B.) [nota 14] – così come modificato alla luce della Direttiva 2004/24/CE – che estende la responsabilità amministrativa derivante da reato anche alle “succursali italiane di banche comunitarie o extracomunitarie”.
Tale estensione si spiega in ragione del maggior rilievo riconosciuto dal Legislatore – prima comunitario, poi italiano – all’aspetto “dell’operatività sul territorio nazionale a discapito di quello della nazionalità o del luogo della sede legale e/o amministrativo principale dell’ente” (cfr. pag. 16, punto 6.8, Cass. Pen., sent. 7 aprile 2020, n. 11626).
Il fatto che l’ente straniero, nell’interesse o a vantaggio del quale sia stato commesso il reato-presupposto, debba rispondere del conseguente illecito amministrativo appare, dunque, principio assolutamente indiscusso in ambito bancario, di talché sembrerebbe quanto meno anomalo adottare una diversa impostazione con riferimento ad articolazioni nazionali di società straniere (situazioni del tutto assimilabili a quella presa in considerazione dal T.U.B.).
A non diverse conclusioni si ritiene debba pervenirsi dall’angolo visuale comunitario.
Tra gli argomenti addotti da coloro che intendono confutare la tesi de qua rientra, invero, la asserita contrarietà di tale approccio ai principi consacrati negli artt. 49 [nota 15] e 54 [nota 16] TFUE.
Trattasi della cd. libertà di stabilimento, in forza della quale è riconosciuta, ad ogni persona fisica o giuridica residente all’interno della Unione Europea, la facoltà di instaurare la propria attività nel territorio di un altro Stato membro, attraverso l’insediamento di una propria sede, agenzia, succursale o filiale e ciò alle condizioni previste dalla legislazione del paese di stabilimento nei confronti dei propri cittadini.
Non è ammessa, pertanto, alcuna forma di discriminazione, occulta o palese, nei confronti di quei soggetti, riconducibili ad altro Paese comunitario, che decidano di localizzare la sede, primaria o secondaria, della propria attività in un diverso Stato membro (cfr. art. 49, par. 1, TFUE).
Gli Stati comunitari, in altri termini, sono tenuti a garantire “l’accesso alle attività autonome e al loro esercizio, nonché la costituzione e la gestione di imprese e in particolare di società ai sensi dell’articolo 54, secondo comma, alle condizioni definite dalla legislazione del paese di stabilimento nei confronti dei propri cittadini, fatte salve le disposizioni del capo relativo ai capitali” (cfr. art. 49, par. 2, TFUE).
Tale principio, a parere dei sostenitori della tesi opposta, sarebbe violato nella ipotesi in cui una società, avente sede legale all’estero, potesse essere ritenuta responsabile ex d.lgs. 231/2001 per il reato commesso in territorio italiano.
Siffatta argomentazione, però, appare, soprattutto alla luce delle puntuali considerazioni svolte al riguardo dal Tribunale di Lucca e dalla Suprema Corte, ex se contraddittoria e inconferente.
Come anzidetto, invero, la libertà di stabilimento si sostanzia nel diritto, riconosciuto in capo ad ogni persona fisica o giuridica “residente” all’interno della Unione Europea, di poter collocare la sede primaria o secondaria della propria attività in un diverso Paese membro, godendo, però, del medesimo trattamento riservato agli individui ovvero alle società nazionali.
Ciò posto, sottoporre l’ente straniero alle medesime conseguenze giuridiche alle quali sarebbe esposto quello italiano – in ipotesi di commissione di reato-presupposto in Italia – lungi dall’apparire in contrasto con il principio della liberta di stabilimento, appare essere una sua logica concreta declinazione.
Sarebbe “discriminatorio” esattamente il contrario.
Non a caso, la Suprema Corte rileva “l’inapplicabilità alle imprese straniere delle regole e degli obblighi previsti dal decreto n. 231 ed il conseguente esonero dalla responsabilità amministrativa realizzerebbe un’indebita alterazione della libera concorrenza rispetto agli enti nazionali, consentendo alle prima di operare sul territorio italiano senza dover sostenere i costi necessari per la predisposizione e l’implementazione di idonei modelli organizzativi” (cfr. pag. 16, punto 6.7, Cass. Pen., sent. 7 aprile 2020, n. 11626).
Del medesimo avviso sembrerebbero essere i giudici di merito secondo i quali dall’accoglimento della tesi opposta, professata principalmente dalla dottrina, deriverebbero “indebite alterazione della libera concorrenza”, dal momento che tale impostazione permetterebbe alle imprese straniere “di sottrarsi agli obblighi in esso [il d.lgs. 231/2001, n.d.r.] contenuti, pur potendo continuare ad operare in Italia attraverso lo stabilimento della propria sede principale all’estero” (cfr. pag. 981, Trib. Lucca, sent. 31 luglio 2017, n. 222).
La Suprema Corte, in ultimo, si è premurata di confutare una ulteriore argomentazione fondata, questa volta, sul diritto internazionale privato, segnatamente l’art. 25, legge 218/1995 [nota 17].
Ed infatti, se è certamente vero, da un lato, che la suddetta previsione normativa individua, quale “criterio di collegamento” per la scelta della legge applicabile ad una persona giuridica, il luogo ove quest’ultima ha visto perfezionarsi il suo procedimento di costituzione, è, però, altrettanto vero che siffatta disposizione riguarda, in via esclusiva, il diritto civile e le questioni societarie regolate da quest’ultimo.
Nemmeno tale ultima argomentazione appare, pertanto, idonea a confutare l’assunto in base al quale “le persone giuridiche che “si trovano nel territorio dello Stato”, qualunque nazionalità esse abbiano, [devono] osservare – al pari delle persone fisiche – la legge penale vigente in Italia a norma dell’art. 3, comma primo, cod. pen., e, dunque, rispondere degli illeciti commessi con le condotte e le attività che esse svolgano nel nostro Paese a mezzo dei propri rappresentanti e/o soggetti sottoposti alla altrui controllo o vigilanza” (cfr. pagg. 16 e 17, punto 6.9).
Note: