La restituzione delle somme mediante accordo transattivo generico non fa scattare la c.d. “bancarotta riparata”.
Con la recentissima Sentenza (cfr. Cass., Sez. I, n. 19887, ud. 20.04.2022, dep. 20.05.2022) la Suprema Corte si è pronunciata sulla c.d. “bancarotta riparata” statuendo che:
“a seguito dell’impiego della carta di credito aziendale per scopi estranei all’attività di impresa, l’accordo transattivo siglato tra l’azienda e il consigliere di amministrazione che ne ha tratto utilità, in cui rinuncia a determinati emolumenti – buona uscita e altri voci – non integra la cosiddetta “bancarotta riparata” in assenza di dati certi in ordine a una “reintegrazione” del patrimonio prima della dichiarazione di fallimento”.
La Pronuncia in commento trae origine dalla condotta di un amministratore di una società dichiarata fallita, il quale distraeva risorse da quest’ultima per circa 78 mila Euro, utilizzando a più riprese la carta di credito aziendale per acquisti di bene e servizi estranei alle necessità aziendali.
Per difendersi dalla contestazione di cui sopra il ricorrente lamentava, tra le altre censure proposte coi motivi di ricorso, il vizio di motivazione in ordine alla valutazione della transazione tra l’imputato e la società, con cui il primo rinunciava agli emolumenti e alla buona uscita a lui spettanti.
La Suprema Corte nel confermare la condanna di secondo grado ha ripercorso tutta la giurisprudenza di legittimità in tema di “bancarotta riparata”, precisando che quest’ultima si configura esclusivamente nel momento in cui la sottrazione dei beni venga annullata da un’attività di segno contrario prima della soglia cronologica costituita dalla dichiarazione di fallimento, determinando l’insussistenza dell’elemento materiale del reato per assenza di pregiudizio ai danni dei creditori della società.
E’, tuttavia, onore del soggetto che si è reso responsabile della condotta distrattiva, provare l’esatta corrispondenza tra i versamenti compiuti e gli atti distrattivi commessi.
Tale non è la fattispecie concreta sottoposta al vaglio della Corte di legittimità, dal momento che, nel caso in esame, nell’accordo transattivo sottoscritto dall’imputato e dalla società non veniva indicato l’ammontare delle somme alle quali l’amministratore rinunciava, nè tanto meno se tali crediti fossero certi, liquidi ed esigibili, senonché non poteva ritenersi configurata la condotta ripartiva di reintegrazione dei beni societari, idonea ad eliminare gli effettivi distrattivi, riconducibile alla categoria bancarotta riparata.